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lunedì 11 novembre 2013

UFG Book Club: I Miserabili (tappa I–#2)

Buongiorno a tutti!

Comincia ufficialmente con questo post, come promesso ieri, il progetto legato alla ri-lettura de I Miserabili; organizzato secondo l’evento creato da Fragola, ci terrà occupati per i prossimi mesi. Il post principale dedicato alla prima tappa lo trovate qui, su Una Fragola al Giorno.  
Tre avvisi prima di cominciare: primo, in questi post spesso parlerò dettagliatamente di ciò che accade nei capitoli. Se volete evitare gli  spoiler, è meglio che torniate a leggere qui quando avrete letto le pagine di cui si tratta.
Secondo, mi sono dilungata un po’: l’effetto Hugo, sommato a una mia naturale tendenza alla chiacchiera, ha fatto più danni di quanto pensassi. D’altronde, i primi capitoli sono solitamente quelli che hanno bisogno di un’analisi più approfondita. Spero comunque di fornirvi una lettura interessante.
Terzo, tutte le citazioni sono tratte da I Miserabili, Victor Hugo, trad. it. Marisa Zini, Mondadori, 2009.

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La prima tappa va dal primo al terzo libro della Parte Prima, intitolata Fantine.
La citazione con cui si apre il libro sottolinea sin da subito quale sia la posizione dell’autore nei confronti dei miserabili, citati sin dal titolo:

Finché esisterà, per colpa delle leggi e dei costumi, una condanna sociale che, in piena civiltà, crea artificialmente degli inferni e mescola al destino, che è divino, una fatalità umana; finché i tre problemi del secolo, la degradazione dell’uomo per causa del proletariato, l’avvilimento della donna per causa della fame, l’atrofia del fanciullo per causa delle tenebre, non saranno risolti, finché sarà possibile in certe sfere l’asfissia sociale; in altre parole da un punto di vista ancor più esteso, finché sulla terra vi saranno ignoranza e miseria, libri della natura di questo non potranno essere inutili.

Hauteville-House, 1° gennaio 1862

Un’introduzione quanto mai densa e piena di significato, visto quanto ci apprestiamo ad affrontare: un’accusa alla società che chiude gli occhi. 
Eppure, quando ho aperto il libro e ho cominciato a leggere, non ho potuto fare a meno di mettere un attimo da parte questo messaggio, perché mi sono sentita avvolta da una sensazione meravigliosa, come stessi riabbracciando un vecchio amico.

Nel 1815 Charles-François-Bienvenu Myriel era vescovo di Digne; vecchio di circa settantacinque anni, occupava il seggio di Digne dal 1806.
Benché questo particolare non c’entri per nulla col fondo stesso della nostra narrazione, non è forse inutile, non foss’altro che per scrupolosa esattezza, accennare qui alle voci e alle chiacchiere corse sul suo conto al tempo in cui egli era giunto nella diocesi. Vero o falso, quel che si dice degli uomini occupa spesso nella loro vita, e soprattutto nel loro destino, un posto uguale alle loro azioni.

Monsignor Bienvenu viene presentato così, cominciando a parlare del suo passato vero e presunto, con quel gusto per la descrizione delicata e per l’aneddoto sagace che spesso distingue Hugo.
Ad esempio, l’autore parla della sorella del vescovo, Baptistine, con parole lievi quanto la persona che descrivono:

La magrezza dell’età giovanile era divenuta nella maturità trasparenza, e questa diafanità lasciava intravedere l’angelo. Più ancora che una vergine era un’anima; la sua figura pareva fatta d’ombra, appena quel tanto di corporeo perché vi fosse un sesso; un po’ di materia per racchiudere una luce; grandi occhi sempre chiusi; un pretesto perché un’anima rimanga sulla terra.

È il vescovo, però, a dare il nome al primo capitolo; è quindi a lui che viene dedicata maggior attenzione.
Le sue azioni e la narrazione della sua storia, sia attraverso fatti di tutti i giorni che mediante avvenimenti e incontri di un certo calibro, sembrano consegnarci l’immagine di un uomo che diviene epitome del comandamento dei Vangeli, ama il prossimo tuo come te stesso, fino ad assumere la parvenza di figura Christi, come Hugo sembra lasciar intendere; allo stesso tempo, assume la verve di una figura socratica, grazie alla bonaria ironia che lo spinge a distruggere le vane certezze altrui con risposte argute, cortesi ma taglienti quando necessario.
Il suo operato come vescovo scalda il cuore: porto come esempio principale il suo continuo privarsi dei propri beni in modo da donarli ai poveri. Così si è guadagnato il suo nome:

Poiché i vescovi sogliono elencare i loro nomi di battesimo al principio delle ordinanze o delle lettere pastorali, i poveri del paese quasi per un istinto affettuoso, avevano scelto tra i nomi e i prenomi del vescovo quello che presentava per loro un significato, e lo chiamavano soltanto monsignor Bienvenu. Noi faremo altrettanto e all’occorrenza lo chiameremo così. Del resto, tale appellativo gli garbava:
«Mi piace questo nome» diceva. «Bienvenu corregge il monsignore.»

Si tratta, insomma, di un uomo praticamente perfetto nella sua santità; eppure, sarà la candida ironia di cui vi ho parlato, sarà la sua bontà, sta di fatto che non risulta artefatto, né odioso. Forse perché noi stessi (o perlomeno, io) vorremmo essere partecipi della sua perfezione, come dei discepoli, standogli al fianco sia mentre studia che mentre zappa nel suo giardino, usando “una unica espressione; darsi al giardinaggio, 'perché lo spirito è un giardino'”, come scrive lo stesso Hugo.
La sua visione evangelica si pone in contrasto con quella ipocrita di quei virtuosi che, tutti presi dalla propria fede impeccabile, dimenticano il destino di chi è loro fratello ed è caduto. Monsignor Bienvenu non dimentica la carne di cui è fatto l’uomo, né le ingiustizie che a volte la società elargisce e che schiantano ogni possibilità di redenzione.

«Errate, cadete, peccate, ma siate giusti. Peccare il meno possibile è la legge dell’uomo; l’assenza di peccato è il sogno dell’angelo. Ogni cosa terrestre è soggetta al peccato; esso è una gravitazione.»
Quando sentiva la gente gridar forte e indignarsi subito: «Oh, oh!» diceva sorridendo «a quanto pare questo è un peccataccio che tutti commettono. Ecco le ipocrisie sgomente che si sbrigano a protestare e a mettersi al riparo.»
Era indulgente verso le donne e verso quei disgraziati su cui grava il peso della società; diceva: «Le colpe delle donne, dei fanciulli, dei poveri e degli ignoranti sono le colpe dei mariti, dei padri, dei padroni, dei forti, dei ricchi e dei sapienti.» E ancora:  «A quelli che non sanno, insegnate quanto più potete; la società è colpevole di non dare l’istruzione gratuita; essa è responsabile delle tenebre che produce». Quest’anima è piena d’ombra, perché vi si commette peccato: colpevole non è chi vi genera il peccato, bensì chi vi genera l’ombra.

Come si nota anche dalla frase che conclude questo estratto, Hugo è un narratore presente, che non esita a palesarsi con degli incisi personali e con dei giudizi su chi sta agendo, o su ciò che accade. Personalmente, io lo adoro anche per questo: sembra quasi partecipare con me alla sorte dei personaggi, come se fosse al mio fianco durante la lettura.
Altro esempio, emblematico anche delle posizioni politiche di Hugo, è l’accenno che fa all’esperienza del vescovo di fronte all’esecuzione di un condannato che ha appena confessato: la sua descrizione della ghigliottina smuove nel lettore un istinto atavico, una repulsione della morte che ci fa voltare lo sguardo; una ripresa di quanto scritto ne L’ultimo giorno di un condannato a morte (1829), poi approfondita quando ci verranno rivelate le riflessioni di Jean Valjean e la loro causa principale, ossia il trattamento riservatogli dalla giustizia. Ma di queste parleremo più tardi; ora vorrei concedere altro spazio al monsignore, visto che il nostro protagonista ne avrà molto in seguito.

Torniamo a Bienvenu, dunque; ormai vi starete chiedendo che altro c’è da dire, di questo essere che pare perfetto. Ebbene, devo pormi in parte contro quello che io stessa ho scritto prima e ammettere che il vescovo talvolta cade nel torto, e Hugo ci mostra anche questo con dovizia di particolari – rendendolo un personaggio ancora più luminoso di quanto già non fosse, poiché le sue piccole ombre non fanno che dare risalto alla sua luce.
L’episodio che più colpisce, in questo senso, è il confronto tra il monsignore e G., convenzionale (ovverossia membro della Convenzione nazionale francese) di cui non sapremo mai il nome completo, che abita al di fuori del paese. Il dialogo tra i due scardina alcune delle certezze di Bienvenu, di origini nobili e realista, riguardanti la Rivoluzione: ne mette in evidenze le brutture, come il terribile 1793, ma allo stesso tempo sottolinea la sua necessità storica e morale, la giustizia di fondo che ha portato al ribaltamento dell’ordine antico. Questa parte è particolarmente apprezzabile se si ha almeno un’infarinatura storica; io stessa, rileggendo le loro argomentazioni, le ho apprezzate molto di più ora che ho dato l’esame di Storia Moderna che durante la prima lettura, in cui certi avvenimenti avevano dei contorni sfumati, poco chiari.
Per questo motivo mi permetto di segnalarvi alcuni dei libri su cui ho preparato l’esame e che, se l’argomento è di vostro interesse, vi saranno senz’altro utili:

Storia moderna - Ago, VidottoStoria critica della rivoluzione francese - J. Solé La rivoluzione francese - L. Hunt L'antico regime e la rivoluzione - A. de Tocqueville

Troverete più informazioni a riguardo cliccandoci sopra. Sottolineo, anche col rischio di risultare ridondante, che la lettura de I Miserabili si apprezza moltissimo anche senza una preparazione storica approfondita, com’è accaduto a me durante la prima lettura; averla permette un’esperienza più consapevole, senza dubbio, ma non è fondamentale.

Chiuso questo piccolo excursus accademico, torniamo al nostro Bienvenu. Hugo sfrutta questo suo incontro col convenzionale anche per sottolineare la marginalità, nonostante tutto, delle vedute politiche del vescovo: nella sua vita non hanno poi tanto spazio, sono “cadute perdonabili”, visto che l’unica legge cui è veramente soggetto è quella della carità, da concedere a tutti coloro che ne hanno bisogno. Tuttavia, l’autore sfrutta il momento per esprimere parte del proprio pensiero, condannando chi fa la banderuola, seguendo il potente del momento.
Le digressioni di Hugo, strumento evidentemente da lui amato e di cui fa ampio sfoggio, è “il bello che è altrettanto utile dell’utile”, per dirla con parole che lui stesso mise in bocca al monsignore: un mezzo che forse molti lettori odierni non apprezzeranno fino in fondo, ma che è fondamentale per l’autore, che attraverso questo punta all’arricchimento e alla presa di coscienza di chi legge, senza dimenticare anche la possibilità di esprimere il suo credo personale (sia morale che politico – molti saranno gli excursus sul popolo francese, ad esempio), mescolando all’arte un fine sociale e più ampio. Inoltre, gli concede la possibilità di mettere in mostra il suo genio letterario, talvolta con certi virtuosismi che non tutti si possono permettere; un’applicazione sopraffina della massima miscere utile dulci, in linea in fondo con quello che era lo spirito del tempo.
Potremmo ascrivere alla categoria delle digressioni anche gli ultimi capitoli di questo Libro Primo, in cui si parla dell’ortodossia del pensiero del vescovo e della sua presa di posizione nei confronti dei dogmi; argomento che potrebbe sembrare poco entusiasmante, e che pure Hugo rende in maniera vivace e appassionata, anche attraverso un uso oculato delle figure retoriche, come l’enumerazione incalzante degli ultimi paragrafi:

«Ma via, guardate lo spettacolo del mondo; guerra di tutti contro tutti; il più forte è il più intelligente: il vostro amatevi gli uni con gli altri è una sciocchezza.»
«Ebbene» rispose monsignor Bienvenu senza discutere «se è una sciocchezza, l’anima deve rinchiudervisi come la perla nell’ostrica.»
E davvero egli ci si chiudeva, ci viveva, se ne appagava completamente, lasciando da parte gli enormi problemi che attirano e spaventano, le prospettive insondabili dell’astrazione, i baratri della metafisica, tutte quelle profondità che per l’apostolo convergono a Dio, per l’ateo al nulla; il destino, il bene e il male, la lotta dell’essere contro l’essere, la coscienza dell’uomo, il sonnambulismo pensoso dell’animale, la trasformazione attraverso la morte, il riepilogo delle esistenze che il sepolcro contiene, l’incomprensibile innesto degli amori successivi sull’io persistente, l’essenza, la sostanza, il Nihil e l’Ens, l’anima, la natura, la libertà, la necessità; problemi irti, folti grovigli sinistri su cui si chinano i giganteschi arcangeli dello spirito umano; formidabili abissi che Lucrezio, Manu, San Paolo e Dante contemplano con quell’occhio folgorante che, guardando fisso l’infinito, pare vi faccia schiudere le stelle.
Monsignor Bienvenu era semplicemente un uomo che constatava dall’esterno le questioni misteriose senza scrutarle, senza agitarle, e senza turbare con questo la propria mente, e che aveva nell’animo il grave rispetto per l’ombra.

Una conclusione che riporta Bienvenu sul piano umano, rendendo chiaro che la sua santità non deriva dal filosofeggiare sui massimi sistemi, quanto dalla riflessione dell’uomo semplice, che ha colto nel corso della vita, anche attraverso il peccato e la perdizione, la dolcezza di Dio. Riavvicinandolo alle persone comuni lo rende un esempio imitabile e non un’immagine irraggiungibile.

La luminosità di questo Giusto, che dà il titolo al Libro Primo, sarà fondamentale per il percorso di colui che incontreremo all’inizio del Libro Secondo, il protagonista vero e proprio del romanzo: Jean Valjean.
Che entrata triste gli riserva Hugo! Quanta sofferenza lo segue, sin dalla sua apparizione! Viaggiatore stanco, sporco e affamato, sarà subito rifiutato dalle locande a causa del suo passato da galeotto, che è tenuto a comunicare presso ogni comune in cui si ferma e che lo rende subito inviso ai paesani: “Liberazione non è libertà. Si esce dalla galera ma non dalla condanna” scrive lo stesso Hugo.

L’uomo abbassò il capo, raccolse il sacco che aveva deposto a terra e se ne andò.
Infilò la strada principale; camminava alla ventura, diritto dinanzi a sé, rasentando le case, come un uomo umiliato e triste. Non si voltò neppure una volta, ma se l’avesse fatto, avrebbe visto l’albergatore della Croce di Colbas sulla soglia della porta, attorniato da tutti gli avventori e da tutti i passanti che parlavano animatamente segnandolo a dito e dagli sguardi diffidenti e spaventati del gruppo avrebbe indovinato che di lì a  poco il suo arrivo sarebbe stato l’avvenimento di tutta la città.
Ma non vide nulla di tutto ciò: le persone abbattute non si guardano alle spalle; fin troppo bene sanno che la cattiva sorte li segue.

Si presenta subito come miserabile, Jean, abbruttito e rifiutato; battuto, eppure non ancora sconfitto, perché vive in lui un’umanità inesprimibile, che combatte e rifiuta d’arrendersi, per cui gli brillano gli occhi “sotto le sopracciglia come un fuoco sotto un cespuglio”. Quando Hugo nel capitolo VI descrive la sua vita e come sia arrivato a passare diciannove anni al bagno penale, solo per aver tentato di rubare un tozzo di pane, lì si comprende davvero quanto sia grande lo spirito umano, se riesce a sopravvivere anche solo in parte a una tale miseria.
L’autore non si limita ad elencare le brutture e le violenze sopportate, ma ne parla con uno stile tale da rendere impossibile la mancanza d’empatia. Sfrutta un armamentario retorico dotato di periodi stratificati e densi di subordinate, in alternanza a frasi brevi, nei momenti più intensi persino nominali; sententiae di matrice senecana che riescono a rendere su carta la prostrazione. Quando nel capitolo successivo (La disperazione messa a nudo) allarga il discorso nel tentativo di trovare la causa primigenia della situazione non solo di Valjean, ma dei galeotti e dei miserabili in generale, la narrazione cede il passo alla dissertazione e l’autore L'ultimo giorno di un condannato a morte - V. Hugoriprende un discorso da lui già affrontato in altra sede, ovvero ne L’ultimo giorno di un condannato a morte, come vi accennavo più su. Tuttavia, è una ripresa migliore, più forte, non solo per il perfezionamento stilistico dell’autore, ma anche grazie al pathos che Jean Valjean le conferisce, assai superiore rispetto a quello del condannato senza nome del libretto del ‘29. Rendendo noto a  noi lettori tutti i perché, i chi, i come rende ancora più crudeli gli interrogativi che Valjean si pone, mettendo in evidenza l’assurdità di una giustizia che rende l’uomo peggiore di quanto non fosse prima di finire sotto il suo giogo.
L’abbruttimento coglie l’oppresso e lo riduce a bestia, un corpo privo di coscienza che vede solo oscurità. Senza possibilità di redenzione, perché colmo d’odio: sentimento legittimo, ma pur sempre imperdonabile. È la situazione di Jean, che da ladro per necessità è effettivamente divenuto un criminale, perché ormai è l’unico modo in cui crede di poter sopravvivere.

A volte non sapeva neppur bene cosa sentisse; viveva nelle tenebre, soffriva nelle tenebre, odiava nelle tenebre; procedeva – per così dire – odiando. Viveva abitualmente in quest’ombra, brancolando come un cieco e come un visionario; soltanto a tratti gli veniva improvviso dall’intimo o dal di fuori uno scoppio di collera, un accrescimento di sofferenza, un debole e fuggevole bagliore che gli illuminava tutta l’anima e gli scopriva repentinamente intorno, davanti o dietro, al chiarore d’una luce sinistra, gli orridi baratri e le truci prospettive della sua esistenza.

Nel capitolo L’onda e l’ombra  Hugo crea un’analogia portentosa, rendendo la disperazione un mare in cui l’uomo e la speranza affondano come naufraghi: non so se si sia mai trovato in balia del mare aperto, in acque scure e sconosciute, preso dal terrore dell’immenso che sembra aprirsi sotto di sé; ma personalmente ho vissuto un’esperienza simile e posso dire che è riuscito a farmela rivivere in maniera vivida. Sento di poter dire che Hugo e le tempeste sono un binomio perfetto (e ne ho la prova anche ne L’uomo che ride, dove la parte dedicata a un terribile naufragio dura ben più di un capitolo).

Solo il caso e le parole di una signora gentile permetteranno a Jean Valjean, dopo esser stato rifiutato da tutti, di bussare alla giusta porta: l’uscio sempre aperto di monsignor Bienvenu. Il vescovo gli dà un pasto caldo, un letto dove dormire, delle parole gentili; lo accoglie chiamandolo “mio fratello” e “signore”; non gli rivela il proprio ruolo ecclesiastico, né gli rivolge parole moraleggianti, ma gli apre semplicemente le braccia accogliendolo come un viandante che si è perso. Una vera e propria pecorella smarrita. “L’ignominia ha sete di rispetto” scrive Hugo, e Bienvenu disseta Valjean il più possibile, per ridargli l’umanità che gli hanno tolto: arriva a tirar fuori le posate buone e i candelabri, tutti d’argento, per trasformarlo da poveraccio a ospite rispettabile.
E nonostante questo, nonostante l’amore caritatevole che gli viene rivolto, Jean non è ancora pronto ad accettare la sua umanità perduta e, come chi sta al buio e improvvisamente torna alla luce del giorno, il nostro protagonista rimane accecato e reagisce come la belva che è diventato: ruba l’argenteria e scappa col favore del buio, mentre tutti dormono.
Anche in questo frangente, la resa del tumulto interiore prima e durante la ruberia è incredibile: è un accumularsi di frasi brevi, domande retoriche, immagini oscure e universali che danno al periodare un andamento acceso e svelto, fino al momento del dunque, in cui il discorso diviene solenne e lento, per poi chiudersi con velocità in una serie di coordinate conclusive, che rendono bene anche l’immenso senso di colpa che schiaccia il petto del galeotto.

Senso di colpa che raggiungerà il parossismo quando, scoperto, si vedrà scagionato dallo stesso Bienvenu, che gli fa dono anche dei candelabri (che Valjean non aveva preso). Di fronte ai gendarmi che chiedono spiegazioni, il vescovo dice di aver comprato la sua anima, di avergli fatto promettere di divenire un galantuomo; e anche se Jean queste parole non le ha mai pronunciate davvero, le sente sedimentarsi nel petto quando sarà libero di andare. Personalmente, questo gesto mi ha commossa.
Bienvenu dona la vita e la libertà a Jean Valjean; con l’argenteria gli restituisce davvero la sua anima e gli regala la fiducia e la speranza.
Qui si esplica il lungo preambolo del Libro Primo: la scena assume tutta un’altra profondità, perché la conoscenza che abbiamo di entrambi permette a Hugo di evitare una fastidiosa stucchevolezza, che altrimenti sarebbe stato difficile scansare.

Sarebbe bello poter dire che la rinascita del galeotto avviene subito dopo questa seconda illuminazione; tuttavia, il nostro dovrà cadere e rinascere una terza e ultima volta, prima di poter tornare alla propria vita come uomo.
L’ultima caduta sembra quasi la peggiore: sulla strada, senza alcun vero motivo, Jean ruberà i quaranta soldi di un ragazzino di nome Petit-Gervais. Sopraffatto dalla bontà del vescovo, scosso, ruba una moneta a un innocente senza nemmeno rendersene conto, compiendo una violenza come fosse un gesto automatico.
Si tratta dell’ultimo gesto impostogli da un crudele riflesso incondizionato, che gli ha per un momento oscurato il raziocinio: sarà il colpo di grazia grazie al quale, una volta resosi conto dell’accaduto, riaprirà le sue ferite e permetterà al balsamo caritatevole del monsignore di insinuarsi nel suo essere e di mondarlo. Il disprezzo che il lettore prova per un momento, vedendolo compiere un gesto così cattivo e gratuito, si tramuta in pietà non appena si rende conto di quanto quest’ultimo male fosse necessario per raggiungere il bene. Jean piange e, bagnato dalle prime lacrime che versa dopo diciannove anni, vediamo il suo nuovo volto.
Il Libro Secondo si chiude così, tra il pianto e la preghiera, sulla soglia di una definitiva rinascita.

anne-hathaway-10Il Libro Terzo è breve, rispetto ai due precedenti, e ci presenta un altro personaggio importante: Fantine. Molti di voi la ricorderanno solo per le sofferenze da cui è notoriamente afflitta, rese celebri in tempi recenti dall’interpretazione di Anne Hathaway; tuttavia, il nostro primo incontro con lei è tutto sommato felice. È una ragazza giovane, nel fiore degli anni, dai capelli d’oro e dai denti perlacei, presa dalla gioia semplice degli innamorati; trasferitasi dalla campagna alla città, lavora e “poi, sempre per vivere, perché anche il cuore ha fame, ella amò.”
La vediamo mentre chiacchiera e passa le sue giornate con altre tre ragazze, un po’ più di mondo e frivole, e con quattro ragazzi, tra cui il suo primo amore, Félix Tholomyès. I quattro sono studenti parigini, mantenuti dalle rendite dei genitori, gaudenti acculturati che si credono saggi e da ubriachi s’atteggiano a profondi conoscitori dell’essere. Quella che per Fantine è una relazione intensa, per Félix è una passione passeggera; le altre sono consce della natura transitoria del loro rapporto, Fantine vive l’idillio.

L’amore è una colpa: sia pure. Fantine era l’innocenza che sopravvive alla colpa.

Quando i quattro, dopo una giornata passata a divertirsi al parco, le abbandoneranno una volta per tutte, Fantine si ritroverà sola e con il frutto del suo amore non corrisposto in grembo. Le ultime frasi spezzano la felicità iniziale e preparano, mentre ancora non si sono spenti gli echi delle ultime gioie, le miserie che dovrà affrontare questa giovane donna.

Un’ora dopo, rientrata nella sua camera, ella pianse. Era, l’abbiamo detto, il suo primo amore; si era data a Tholomyès come a un marito, e la povera ragazza aveva una creatura.

 

Frasi meritevoli che, per un motivo o per l’altro, non ho inserito nel corpo del post

  • Sapeva tacere e parlare al momento opportuna; o consolatore mirabile! Non tentava di cancellare il dolore con l’oblio, ma di innalzarlo e nobilitarlo con la speranza.
  • Quello stretto recinto, avente per volta i cieli, non era sufficiente per adorare Iddio nelle sue opere più leggiadre, come in quelle più sublimi? Forse qui non è racchiuso tutto e che desiderare di più? Un giardinetto per passeggiare, e l’immensità per sognare. Ai piedi quel che si può coltivare e raccogliere; sul capo quel che è oggetto di studio e di meditazione; pochi fiori sulla terra e tutte le stelle nel cielo.
  • In questa condizione Jean Valjean meditava e quale poteva essere la natura della sua meditazione? Se il granello di miglio sotto la macina avesse dei pensieri, penserebbe senza dubbio come Jean Valjean. Tutte queste cose, realtà piene di spettri, fantasmagorie piene di realtà, avevano finito per creargli uno stato interiore pressoché indefinibile. A volte, durante il lavoro del bagno, si fermava si metteva a pensare; la sua mente più matura e insieme più smarrita di un tempo si ribellava; tutto quel che gli era capitato gli sembrava assurdo, tutto quel che l’attorniava impossibile. Diceva a se stesso: è un sogno. Guardava l’aguzzino in piedi a pochi passi da lui, e questi gli sembrava un fantasma; ma a un tratto il fantasma lo percuoteva col bastone.


Alla prossima puntata,


Camilla

10 commenti:

  1. Grazie Cami,
    un bellissimo commento che mi fa considerare Hugo un autore imprescindibile.
    Non vedo l'ora di leggere i seguiti...
    è forte la tentazione di lasciare da parte ogni altro libro e dedicarmi, insieme a voi, ai "Miserabili"...

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    1. Grazie a te per le belle parole, Vin :)

      Sai che mi farebbe solo piacere vederti partecipare, ma io sono di parte e quindi non dirò una parola di più ;)

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  2. Io e i classici non siamo mai, e sottolineo la parola mai, andati d'accordo. Figurati l'espressione delle altre quando ho accettato di partecipare al GdL e leggere "I miserabili": mi han dato praticamente della pazza!

    Ma, mi tocca ammetterlo, 'sto libro mi sta prendendo: la prima tappa l'ho divorata e la seconda la sto praticamente mangiando con gli occhi ..

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    1. Che dire, sapendo di questa tua avversione per i classici, i commenti positivi assumono un valore ancora maggiore! :D sono proprio contenta che ti stia piacendo!

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  3. Bellissimo post, profondo ed esaustivo. Un ottima lettura per apprezzare di nuovo quanto già letto. E ora ci aspetta la seconda tappa :-)

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    1. GrazIe per i complimenti nuvolette, mi fa davvero piacere che il post ti sia piaciuto! :D

      Seconda tappa, arrivo!

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  4. “poi, sempre per vivere, perché anche il cuore ha fame, ella amò." ho amato questa frase.
    Ottimo resoconto Cami! :-)

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    1. Grazie mille Sabi :D

      Anche io ho amato molto quella frase, la trovo vera e toccante nella sua semplicità.

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  5. Ciao! Mi chiamo Francesca e mi sono appena iscritta al tuo blog. Amo leggere, soprattutto i classici, e il tuo blog è davvero interessante. Complimenti davvero!!
    Ad essere sincera ho acquistato il volume dei miserabili un po' di tempo fa, ma non ho ancora avuto il tempo di leggerlo. L'idea di una lettura di gruppo, snocciolata in un paio di mesi, mi sembra davvero interessante, e da come ne parli, questo volume non può assolutamente continuare a prendere polvere in libreria... bisogna leggerlo!
    Non vedo l'ora di seguire i prossimi aggiornamenti. un saluto :)

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    1. Ciao Francesca! Grazie per esserti iscritta e per aver commentato con parole tanto gentili: sono felice che il mio blog ti piaccia.

      Concordo, non farlo aspettare ancora: se in generale leggere i classici ti piace, non dubito che "I Miserabili" saprà conquistarti! Se poi vorrai cominciare ora e proseguire con noi del gruppo di lettura, sarà ancora meglio :D

      Grazie; ho pubblicato il nuovo aggiornamento proprio ieri sera :) Un saluto!

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