Titolo:Half bad
Autore:Sally Green
Anno:2014
Editore:Rizzoli
Traduzione:Luca Scarlini
ISBN:978-88-17-07276-2
Pagine:390
Trama:Nathan non è un Incanto comune. In un mondo dove Bianchi e Neri si combattono da sempre, essere un Mezzo codice lo rende un bersaglio; braccato, incerto lui stesso della propria vera natura, dovrà combattere per la sua libertà e affrontare sia i demoni interiori che l’autorità magica che lo vuole assoggettare.
Cosa può accadere quando una metà di te condiziona la percezione che gli altri hanno della tua totalità? Quando metà del tuo bagaglio genetico sembra preponderante e schiaccia l’altra, fino ad annichilirla totalmente? Se quest’altra parte avesse avuto spazio, se avesse ricevuto il cosiddetto beneficio del dubbio, quale delle due avrebbe prevalso? Anzi: la lotta tra le due metà avrebbe mai avuto inizio, senza l’ambiente che prima di tutto ha dato avvio allo scontro?
Sono queste le prime domande che Half bad spinge a porsi, mentre seguiamo il nostro protagonista, Nathan, nel percorso di crescita che lo porterà da bambino a giovane adulto. Tematiche scottanti, indubbiamente, e spesso legate a doppio filo alla realtà: perché quanto conti l’educazione rispetto alla natura del singolo, quanto l’una condizioni l’altra e viceversa, non sono certo problematiche che si pongono solo gli Incanti, streghe e stregoni dotati di Doni singolari, divisi tra Bianchi e Neri anche a causa di caratteristiche fisiche che sembrano renderli quasi due razze diverse (e l’autrice non manca di sottintendere un parallelo, a questo proposito, con il razzismo).
Nathan è figlio di un Incanto Bianco e di un Incanto Nero – anzi, l’Incanto Nero per eccellenza, il più crudele al mondo – e, in quanto tale, è segregato e tenuto sotto costante osservazione. La sua natura di Mezzo Incanto lo rende vittima del pregiudizio dei Bianchi puri; la maggior parte di loro sembra aver già deciso che la sua metà Nera prevarrà senz’altro. Il consiglio che guida il mondo magico inglese si mantiene subdolamente neutro, nascondendo dietro la facciata legiferante il preciso desiderio di servirsi di lui e poi distruggerlo.
Proprio per questo Nathan non è un protagonista eroico, almeno non per come viene comunemente inteso; piuttosto, sembra richiamare le parole di un altro mago, per cui il Mezzo Incanto sembra destinato a «grandi cose... Terribili, certo, ma grandi!». Quel che però lo rende davvero interessante è il continuo dubbio che l’autrice sembra voler insinuare (e che si ricollega con le domande che mi e vi ponevo all’inizio): quanto di questa “predestinazione” è dovuta a un’effettiva natura maligna e quanto, invece, è dovuta al vissuto di un ragazzino che, per la maggior parte della sua vita, non ha ricevuto altro che disprezzo, paura e violenza?
Anche a voler prendere per buona la prima ipotesi, penso non si possa negare che un ambiente così porta perlomeno a crescere in modo molto diverso dal normale. Nathan è quasi costretto a fare i conti con sé stesso fin dall’infanzia, riflettendo sulla propria interiorità quando i suoi coetanei pensano tuttalpiù a giocare; si trova a combattere con delle limitazioni che a volte non riesce a superare (un punto a favore, che allontana ulteriormente l’immagine di “protagonista perfetto” che lo stereotipo vorrebbe imporre); impara il valore della libertà, che assume spesso nel corso del libro il ruolo di obiettivo finale, sfumando in un più generale diritto di vivere, sostenuto con tenacia; scopre la violenza e vi risponde con altrettanta forza, conscio che pochissimi si prenderanno la briga di parlare con lui e che la diplomazia serve a poco, quando si pensa a te come se tu non fossi un essere umano. Mi è piaciuto che l’autrice abbia mostrato anche i suoi scatti d’ira, quasi la malvagità cui viene spinto quando è preda di certi istinti, frutto sia della rabbia che del dolore.
Anche la sua ossessione per il padre ha senso in questa cornice; Nathan sa che i fatti non si possono negare, che lui è un Incanto Nero e ha ucciso molte persone, ma sa anche che il governo sbaglia e sevizia anche chi è innocente, come lui; quindi perché suo padre non può essere una vittima, una persona costretta alla violenza dagli altri (di nuovo, come lui)?
Oltretutto, la famiglia che resta a Nathan – la nonna materna e i fratellastri – non sempre riesce a dargli le risposte che cerca e quindi la figura paterna, lontana e sconosciuta ma legata strettamente dal sangue, sembra assumere anche la funzione di portatore di risposte.
In effetti, grazie al fatto che la narrazione viene portata avanti attraverso il punto di vista di Nathan, il personaggio di Marcus (il padre) risulta più sfaccettato del solito villain totalmente oscuro – anzi, non saprei nemmeno se definirlo tale, visto che non è l’antagonista contro cui si combatte nel corso del libro. È violento e molto potente, ma come lettrice trasportata dalla narrazione di Nathan non posso detestarlo (e questo è senz’altro un bene, perché dimostra la pervasività del punto di vista del protagonista). Oltretutto l’aura di mistero che lo circonda lo rende molto intrigante e ammetto di non essere rimasta per nulla delusa dagli sviluppi che la storia gli riserva.
Vi ho accennato che Nathan vive con degli altri parenti; non vi spiegherò approfonditamente i gradi di parentela – è bello scoprirli da sé – ma volevo comunque sottolineare un paio di cose che li riguardano. Innanzitutto, ho apprezzato che almeno loro (tutti, meno una) fossero dalla sua parte: la nonna probabilmente per amore della figlia e per ragionevolezza (un bambino che colpe può avere?), Arran e Deborah perché sono cresciuti insieme a lui e gli vogliono onestamente bene. Jessica, d’altro canto, è un contraltare perfetto e rappresenta un’ottima palestra per Nathan, visto che gli fa capire sin dall’infanzia cosa lo aspetta fuori di casa.
Tuttavia, e questo vale per tutti loro, li ho trovati abbozzati in modo piuttosto sommario. Deborah è piatta e sottile come un foglio di carta, mi sono affezionata ad Arran (di nuovo, grazie al punto di vista di Nathan) che però sembra chiuso nel suo ruolo di angelo della casa, Jessica ha le sue motivazioni ma appare piuttosto monolitica e la nonna, forse per l’età avanzata, appare come un universo totalmente altro rispetto al protagonista, e di lei riusciamo a intravedere solo la forte tempra – fisica e morale – e l’affetto silenzioso che prova nei confronti di tutti i nipoti.
Purtroppo questa sommaria caratterizzazione è una piaga di cui anche gli altri personaggi secondari soffrono: in particolare, quello che dovrebbe essere l’interesse romantico del Nostro è piuttosto scialbo, a mio parere, e non sono ben chiari nemmeno i sentimenti che la muovono. Tra l’altro, è bene notare che lo spazio dato alle romanticherie non è molto – tanto meglio per me, che non amo le sdolcinatezze, ma forse chi ha letto la quarta di copertina sperando nel potere salvifico dell’Ammmòre (perdonatemi questa scivolata di stile, ma troppo spesso è un escamotage utilizzato davvero male) potrebbe rimanere deluso.
Tornando seri, c’è solo un’altra cosa che non mi ha sempre convinta del tutto, ed è lo stile dell’autrice. I primi capitoli sono creati ad arte per stupire il lettore che apre casualmente il libro, e lo stesso si può dire per la costruzione di certi paragrafi, che sfugge alla gabbia di testo solita; io apprezzo chi esce dagli schemi, e in questo caso è stato un tentativo che riesce a provocare una piacevole curiosità, ma appunto di questo si tratta – un tentativo. C’è una potenzialità inespressa dietro che, secondo me, il lettore coglie e questo non può che smorzare la forza di scene che, di loro, potrebbero avere ben altro impatto. La seconda persona viene abbandonata quasi subito (e verrà ripresa con un risultato migliore, ma ancora non eccelso, solo per qualche capitolo a metà del libro) per una più canonica prima persona, che l’autrice maneggia con facilità molto più evidente – d’altro canto, vi ho già scritto più su di come sia rimasta colpita dalla forza del punto di vista di Nathan. È una percezione che si è fatta più intensa nel corso dei capitoli, portandomi da un iniziale dubbio (ammetto di non essere stata una sostenitrice sin da subito) fino a un bel coinvolgimento; in parte credo sia dovuto alle scelte lessicali, sempre senza fronzoli, semplici, dritte al punto, forse a volte un pizzico troppo “controllate”, ma in generale adatte ai ragionamenti del narratore, adatte a descrivere, per contrasto, le sevizie che Nathan deve subire nel corso della sua vita. I capitoli brevi sono la naturale conseguenza di questo stile e aiutano nel costruire la tensione della trama, dando vita a capitoli densi e, soprattutto all’inizio, icastici.
A questo proposito, devo ammettere che sul fronte dello sviluppo della storia non posso dire granché, se non che mi è piaciuto molto: non approfondirò, perché a piacermi sono state proprio le svolte che meno mi aspettavo, quindi mi limiterò a dire che la Green interrompe l’inizio della quest classica in un modo che fa pensare “Ma certo!”, dandosi una botta sulla fronte, come a dire “Era già tutto lì, avrei dovuto fare subito due più due” - e a me piace molto quando succede.
L’azione e le tensioni aumentano fino al finale, che mi è piaciuto tantissimo, benché l’abbia trovato un filo troppo aperto. Di certo fa venir voglia di avere il seguito, Half wild, tra le mani… Sono certa non solo che la trama mi soddisferà nuovamente, ma che la Green avrà continuato la sperimentazione e il miglioramento che daranno quel quid in più che in questo primo volume, forse anche perché è l’opera prima dell’autrice, ogni tanto latita.
Voto:
7,5
Frasi e citazioni che mi hanno colpita…
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Ma anche con tutta quella sofferenza, quel dolore e quelle crudeltà mi dico che forse i miei antenati hanno trovato la felicità, anche se per poco. Mi dico che io ne sarei capace, e che per forza anche loro lo erano. Lo spero. Lo spero. Lo spero. Perché se devo morire in una cella, prima voglio qualcosa in cambio. E penso ad Arran e ad Annalise, al Galles e al correre, e ogni respiro, ogni respiro deve essere importante, e prezioso e deve valerne la pena.
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La routine non è male.
Svegliarsi con il cielo e il vento non è male. Svegliarsi nella gabbia in catene è quello che hai. Non ti puoi fare schiacciare dalla gabbia. Le catene sfregano, ma guarire è veloce e facile, e allora che problema c’è? […]
Quindi la routine è svegliarsi quando il cielo rischiara prima dell’alba. Non ti serve muovere un muscolo, nemmeno aprire gli occhi per sapere che sta facendo chiaro: puoi startene lì sdraiato e accogliere tutto.
La parte migliore della giornata.
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Quando sono nella gabbia posso memorizzare il colore del cielo, la forma delle nuvole, la loro velocità e come cambiano, e posso andare lassù, nelle nuvole, nelle forme e nei colori. Posso perfino entrare nei colori a chiazze delle sbarre della gabbia, arrampicarmi nelle crepe sotto la ruggine. Girellare dentro una sbarra.
P.S. se vi sembra di aver già letto questa recensione, probabilmente avete seguito il Torneo Tremaghi, divertente gioco organizzato da Denise (Reading is Believing) e Leda (Dreaming Fantasy). Io partecipavo come Percy Weasley e questa recensione è stata la prova finale. Purtroppo non ho vinto, ma volevo comunque condividere con voi i miei pensieri su questo libro!