Miei cari lettori! Sappiate che, anche mentre scrivo la tesi, un pensiero corre sempre a Bibliomania e a voi. Oggi, in un momento di pausa, mi sono decisa a sistemare questa recensione che avevo nel cassetto da un po’ e a pubblicarla.
Non vedo l’ora di poter tornare a scrivere qui in maniera più frequente; nel frattempo, cercherò di sfruttare i miei pochi momenti liberi. E ho anche in mente qualche ideuzza per non lasciare il blog del tutto a se stesso.
Nel frattempo, buoni libri e buona lettura!
Titolo:Warm bodies
Autore: Isaac Marion
Anno:2010
Editore: Fazi Editore
Traduzione: Tiziana Lo Porto
ISBN:978-88-7625-122-1
Pagine:280
Trama:Un’epidemia zombie ha distrutto la civiltà per come noi la conosciamo. Gli umani sopravvivono come possono nelle loro roccaforti, gli zombie cacciano e cercano cervelli. Tuttavia, i non-morti sembrano essere più di cadaveri ambulanti: perlomeno R, zombie pensante, lo è di certo. E quando incontrerà Julie, nelle circostanze meno favorevoli immaginabili, il suo mondo comincerà a cambiare.
Zombie in crisi esistenziale. È questa frase che mi ha spinta a informarmi su Warm Bodies, a chiedermi come potesse svilupparsi una storia in cui un essere in decomposizione, apparentemente incapace di comunicare alcunché e di provare empatia, si rivela più vicino alla condizione umana di quanto non si pensi solitamente. In questo senso, il libro mi ha dato esattamente quel che cercavo; purtroppo, è il resto che ha reso la lettura meno entusiasmante di quanto sperassi. La sensazione è che Isaac Marion potesse dare molto, molto di più.
Non tanto per quanto riguarda lo stile, a dire il vero: quello di Marion è piacevole, intrigante, lapidario quando serve e con un gusto per le immagini oniriche che, quando giocate bene, costruiscono un’atmosfera sempre in bilico tra una luce rosata e calda e un filtro violaceo, freddo e scuro. Inoltre, descrive la violenza quando serve, pur senza indulgervi troppo, riuscendo a trasmettere la sensazione di pericolo e urgenza in cui vivono gli umani, così come la frenesia degli zombie durante l’attacco.
Purtroppo, tutto questo non serve a migliorare la resa dei personaggi “viventi”, né a mettere delle toppe su certi sviluppi della trama poco sensati, e neppure a rendere meno indigesto il messaggio morale che Marion vuole per forza far recepire al lettore.
È vero, non si vive di solo pane; gli affetti, l’arte, tutto ciò che non facciamo solo per mera sopravvivenza ci definisce come esseri umani. Non aprirsi alla possibilità di vivere anche questi aspetti dell’esistenza non ci rende diversi dagli zombie che popolano questo e altri libri, film e chi più ne ha, più ne metta; e opporsi al cambiamento, ogni tipo di cambiamento, non ci rende diversi dagli ossuti.
Tutto bellissimo, tutto vero, ma Marion lo sbatte in faccia al lettore con paragoni sottili come una trave in un occhio, spesso sottolineati direttamente nella narrazione: le città-stadio in cui si sono rifugiati gli umani sono uguali all’aeroporto in cui stanno gli zombie, alcuni esseri umani assumono atteggiamenti da zombie e non sembrano essere meglio dei non-morti. Come lettrice, e come essere umano di media intelligenza e capacità di comprensione, credo mi sarei resa conto dei parallelismi anche senza essere imboccata a forza dall’autore col significato profondo posto a fondamento della narrazione.
Mi infastidisce soprattutto perché all’inizio mi era sembrato che Marion non fosse caduto in questa trappola, anzi: la narrazione umoristica della situazione di R, tragica e ridicola insieme, sembrava allontanarsi da metafore spicce e indirizzarsi più verso una narrazione intrigante, soprattutto quando l’autore descrive la semi-società dei morti viventi, che intriga e disgusta.
Ammetto, però, che a infastidirmi ancora di più è stata la caratterizzazione carente degli umani: i comprimari sono bozzetti creati con l’accetta, simpatici a volte (come Nora) ma nulla di più. A deludermi, in particolare, è stata Julie – ovvero la protagonista femminile. Ora, io riponevo grande fiducia in questo personaggio, perché nell’originale shakespeariano (da cui prende ispirazione questo libro) per me è lei la vera eroina della situazione; invece, la Giulietta di turno mi ha deluso molto. In due parole, e perdonatemi la brutalità, Julie è un’idiota di prima categoria, una che non so davvero come sia sopravvissuta tanti anni in un mondo popolato da zombie. Oltretutto, la sua reazione a R e al suo approccio è assolutamente priva di senso.
Non mi ha sconvolta più di tanto la sua reazione al destino di Perry (ragazzo cui è molto, molto legata) che mi è parsa a modo suo plausibile: è la facilità con cui si lascia avvicinare da R – non fisicamente, ma sentimentalmente – ad essere irritante. Ecco, in questo si potrebbe dire che la riproposizione di Romeo e Giulietta segue esattamente il canovaccio “originale” del sentimento che nasce e culmina in troppo poco tempo per essere credibile – ma visto che ha cambiato tante cose, Marion poteva anche avere il buon gusto di rallentare un poco la narrazione e rendere più credibile l’avvicinamento di Julie e R.
La fretta, a voler ben vedere, è anche il difetto che caratterizza la chiusura del romanzo: quando mi sono resa conto, leggendo, che mancavano al massimo una decina di pagine alla conclusione, ho subito sospettato che la vicenda non avrebbe avuto una conclusione abbastanza ben sviluppata. Così è stato, purtroppo: tutto troppo rapido e veloce, tutto che si risolve fin troppo nettamente, mi verrebbe da dire, con i protagonisti che non si devono nemmeno impegnare troppo. Come se si fosse cercato di montare una climax che poi, purtroppo, non è arrivata a un culmine definitivo.
Mi rendo conto, riguardando quel che ho scritto, di aver calcato soprattutto su quello che di questa lettura non mi è piaciuto; ma credo di averlo fatto spinta in parte dalla coscienza che, di opinioni prettamente positive, ne troverete a iosa nel vasto mare di Internet. Inoltre, avevo anche un leggero bisogno di sfogarmi: l’ho già scritto e lo ripeto, c’erano tutti gli ingredienti per un gran romanzo, e invece il risultato finale è senza infamia e senza lode. Ho idea, comunque, che Isaac Marion abbia il potenziale per scrivere questo ipotetico bel libro, magari con ingredienti nuovi. Uno stile personale, in fondo, l’ha già: si tratta solo di sfruttarlo per una storia meglio sviluppata.
Dedico le ultime parole all’edizione italiana: sono contentissima che abbiano mantenuto le illustrazioni anatomiche a inizio capitolo e, in tutta onestà, non mi dispiace nemmeno la copertina (più dedicata al tema zombie che a quello della relazione romantica, il che mi fa piacere – ormai mi conoscete). Mi ha un poco infastidita, invece, la presenza di alcuni refusi – di cui uno in quarta di copertina! Per carità, non sono molti (giusto un paio), ma mi sembra comunque corretto farlo notare.
Frasi e citazioni che mi hanno colpita…
- Sono morto, ma non è poi così male. Ho imparato a conviverci. Mi spiace di non potermi presentare come si deve, ma non ho più un nome. Quasi nessuno di noi ce l’ha. Smarriti come chiavi di automobili, dimenticati come anniversari. Il mio credo cominciasse per “R”, ma è tutto ciò che so. La cosa buffa è che, fintanto che ero vivo, non facevo che dimenticare i nomi degli altri. Il mio amico “M” dice che uno dei paradossi dell’essere uno zombi è che è tutto buffo, ma non puoi ridere, perché le labbra si sono putrefatte. […]
Non conosco nessuno che abbia ricordi precisi. Solo una vaga conoscenza residua di un mondo che non c’è più. Immagini sbiadite di vite passate che s’attardano come le membra di un fantasma. Riconosciamo gli edifici frutto della civiltà, le macchine, una visione d’insieme – ma in cui non abbiamo alcun ruolo individuale. Nessuna storia. Noi siamo qui e basta. Facciamo quel che facciamo, il tempo passa e nessuno pone domande. E tuttavia, come ho già detto, non è poi così male. Potremmo sembrare degli idioti, ma non lo siamo. Gli ingranaggi arrugginiti della ragione continuano a funzionare, anche se vanno talmente lenti che dall’esterno il movimento è quasi impercettibile. Ci lamentiamo e brontoliamo, facciamo spallucce e annuiamo, e di tanto in tanto viene fuori anche qualche parola. Non è poi tanto diverso da prima.
Ma l’aver dimenticato come ci chiamiamo mi rende molto triste. Tra le tante cose, questa mi sembra la più drammatica. Il mio nome mi manca e mi spiace per quello degli altri, perché vorrei amarli, ma non ho idea di chi siano. - In migliaia abitiamo dentro un aeroporto abbandonato alla periferia di una qualche metropoli. Non che abbiamo bisogno di ripararci o riscaldarci, ma ci piace avere pareti e tetti sopra la testa. Altrimenti vagheremmo in un campo aperto chissà dove, e quello sì che sarebbe un orrore. Non avere niente intorno a noi, niente da toccare né da guardare, nessun tipo di confine, solo noi e le fauci spalancate del cielo. Immagino che essere totalmente morti sia così. Un vuoto immenso e assoluto.
- C’è un abisso tra me e il mondo al di fuori di me. Un gap così grande che i miei sentimenti non possono attraversarlo. Nel tempo che impiegano ad arrivare dall’altra parte, le mie urla si riducono a semplici mormorii.
- Agli Arrivi c’è una piccola folla che ci attende; ci guardano con gli occhi – o le orbite – affamati. Molliamo il carico per terra: due uomini quasi intonsi, qualche gamba carnosa e un torace smembrato. Tutto ancora caldo. Chiamateli resti. Chiamatelo cibo take away. I nostri amici Morti si abbattono su di loro e banchettano lì sul pavimento, come animali. La vita rimasta in quelle cellule impedirà loro di essere totalmente morti, anche se i Morti che non vanno a caccia non sono mai del tutto appagati. Come uomini in mare che non possono mangiare frutta fresca, avvizziranno per mancanza di vitamine, deboli e sempre vuoti, perché la nuova fame è un mostro solitario. Lei accetta a malincuore la carne scura e il sangue tiepido, ma brama l’intimità, quella spietata sensazione di essere connessi che si stabilisce tra i loro occhi e i nostri in quegli istanti finali, come una sorta di negativo oscuro dell’amore.
- La stringo contro di me. Voglio essere parte di lei. Non solo dentro di lei ma tutto intorno a lei. Voglio che i nostri toraci si spalanchino e i nostri cuori migrino e si fondano. Voglio che le nostre cellule si mescolino come la trama della vita.
- «Non esistono parametri su come “dovrebbe” andare la vita, Perry. Non c’è alcun mondo ideale ad attenderti. Il mondo è sempre ciò che è adesso, e sta a te trovare un modo per reagire».
- «Tutto muore alla fine. Lo sappiamo. Persone, città, civiltà intere. Non c’è niente che duri. Per cui se l’esistenza fosse solo binaria, morte o vita, qui o non qui, quale sarebbe il senso del tutto?». Guarda qualche foglia caduta e allunga un braccio per prenderne una, una foglia di acero rosso fiammante. «Mia madre diceva sempre che è per questo che siamo stati dotati della memoria. E del suo opposto: la speranza. Così le cose che non ci sono più continuano a essere importanti. Così possiamo sbarazzarci del passato e costruire il futuro».
- Che immensa responsabilità è vivere da creatura che possiede principi morali.