Cari lettori e care lettrici, vi auguro uno splendido Natale!
Spero sia pieno di gioia e serenità.
Un abbraccio,
Cami
Cari lettori e care lettrici, vi auguro uno splendido Natale!
Spero sia pieno di gioia e serenità.
Un abbraccio,
Cami
Buondì, cari lettori e care lettrici!
Dicembre è un mese pieno d’impegni, poco ma sicuro: ho finito pochi giorni fa di prendere gli ultimi regali, gli esami si avvicinano, la tesi da scrivere incombe… niente di ancestrale, ne convengo, ma ogni dovere richiedere una certa attenzione, sottraendola ai piaceri, ovvero al mio amato blog. Tutto questo per dirvi che il mio ritardo per quanto riguarda i post sul gruppo di lettura de I Miserabili sarà recuperato quanto prima – c’è un post in dirittura d’arrivo, a dire il vero – e che ho un paio di recensioni in cantiere, in attesa di rifinitura.
Tempo al tempo, come si suol dire, e tutte le bozze saranno rifinite per divenire testi scritti come si deve, pronti a venire alla luce.
Nel frattempo, però, con Natale che si avvicina, ho avuto l’occasione di girare per diverse librerie, alla ricerca di alcuni regali; non ho preso nulla per me, ma come sempre la lista dei desideri si è allungata di un paio di titoli. Questo mi ha fatto venire in mente Tre gradi e non ho potuto fare a meno di ritagliarmi un po’ di tempo per scrivere questo post. Chissà, magari qualche parente passerà per questa pagina e troverà l’ispirazione per scegliere un regalo per la sottoscritta!
PRIMO GRADO
Il libro che ho scelto è…
La letteratura in pericolo di Tzvetan Todorov
2008 – Garzanti (originale: La littérature en péril – 2007 – Flammarion)
«Siamo tutti fatti di ciò che ci donano gli altri: in primo luogo i nostri genitori e poi quelli che ci stanno accanto; la letteratura apre all'infinito questa possibilità d'interazione con gli altri e ci arricchisce, perciò, infinitamente.»
In un mondo dominato dalla scienza e dalla tecnica, rischiamo di non capire più i grandi capolavori della letteratura. Sul versante della critica, negli ultimi decenni abbiamo messo a punto una serie di strumenti assai efficaci per l'analisi dei testi, a cominciare dalla filologia e dallo strutturalismo, che hanno assunto un'importanza crescente nell'insegnamento.
In parallelo, fiorisce una produzione narrativa sempre più ripiegata sull'io, e hanno grande fortuna i romanzi di puro intrattenimento. Tuttavia rischiamo di perdere di vista quello che è il senso profondo delle opere letterarie, quello che le rende importanti e necessarie. In queste pagine appassionate e polemiche, Tzvetan Todorov – che all'inizio degli anni Sessanta ebbe un ruolo determinante nella diffusione dei formalisti russi – va al cuore del problema: a che cosa ci serve, oggi, la letteratura? Todorov parte dalla propria vicenda di studioso, prima nella Bulgaria sovietica e poi nella Parigi di Genette e Barthes. Discute i metodi più in voga d'insegnamento della letteratura. Esplora l'attuale produzione narrativa. Soprattutto, si confronta con la lezione dei grandi del passato per ritrovare e rilanciare il valore insostituibile della letteratura.
Perché è nella Lista dei Desideri? Ho appena finito di leggere La paura dei barbari (sempre di Todorov), per l’esame di Storia Contemporanea, un testo molto interessante: Todorov è un autore franco e chiaro, con una prosa che ritengo ottima per i testi di divulgazione culturale, e offre molti punti di discussione. Conoscevo anche il suo impegno in ambito letterario, e ora sono ancora più curiosa di incontrare le sue idee personalmente: non so se le troverò condivisibili o meno, ma penso di poter dire fin da ora che saranno espresse in maniera impeccabile.
SECONDO GRADO
La copertina dell’edizione Garzanti è di un bellissimo blu ciclamino, un colore che adoro e che mi porta alla mente dei grandi mazzi di fiori colorati. La rosa è un altro fiore che mi piace molto; è proprio questo fiore a portarci al prossimo titolo.
Rosa candida di Audur Ava Ólafsdóttir
2012 – Einaudi (originale: Afleggjarinn – 2007 – Kilja)
Lobbi ha ventidue anni quando accetta di prendersi cura di un leggendario roseto in un monastero del Nord Europa. È stata la madre, morta da poco in un incidente d'auto, a trasmettergli l'amore per la natura, i fiori e l'arte di accudirli, il giardinaggio. Così Lobbi decide di lasciare l'Islanda, un anziano padre perso dietro al quaderno di ricette della moglie, e un fratello gemello autistico. Lascia anche qualcun altro: Flóra Sól, la figlia di sette mesi avuta dopo una sola notte d'amore (anzi, precisa lui, «un quinto di notte») con Anna.
Con sé Lobbi porta alcune piantine di una rara varietà di rose a otto petali, molto cara alla madre, la Rosa candida. Questi fiori saranno i silenziosi compagni di un viaggio avventuroso come solo i viaggi che ti cambiano la vita sanno essere. Ad accoglierlo al monastero c'è padre Thomas, un monaco cinefilo che con la sua saggezza e una sua personale «cineterapia » saprà diradare le ombre dal cuore di Lobbi. Ma sarà soprattutto l'arrivo di Anna e Flóra Sól in quell'angolo fatato di mondo a provocare i cambiamenti più profondi e imprevisti nell'animo del ragazzo. Perché, per la prima volta, Lobbi scopre in sé un desiderio nuovo, che non è solo amore per la figlia e attrazione per Anna: è il desiderio di una famiglia.
Perché è nella Lista dei Desideri? L’avevo sfogliato in libreria, un po’ distrattamente, quando era appena uscito. Il titolo, nella sua semplicità, mi aveva incuriosita, così come la copertina. A convincermi definitivamente, però, sono state le opinioni molto positive che ho riscontrato più o meno ovunque: pare sia una storia che sa conquistare i suoi lettori. Spero di potervi dire presto se sarà così anche per me.
TERZO GRADO
L’ambientazione del romanzo precedente è un monastero: l’autore del prossimo libro ne ha visitati molti, in tutta Italia, e ha parlato di questo suo viaggio (fisico e spirituale) nel prossimo libro.
Sulle strade del silenzio. Viaggio per monasteri d’Italia e spaesati dintorni di Giorgi Boatti
2012 – Laterza
Davanti a me la scritta 'Silenzio'. Campeggia cubitale sul bianco della parete. Silenzio? E silenzio sia.
Da Montecassino a Bose, da Camaldoli a Subiaco, dall'abbazia di Noci, nella Murgia pugliese, ai contrafforti di Serra San Bruno in Calabria, da Praglia sino alla badia del Goleto, sui crinali dell'Irpinia orientale. «Hai trovato il monastero giusto?»: la domanda che qualcuno di tanto in tanto mi pone mette in guardia dai fraintendimenti che il mio vagare per eremi e cenobi potrebbe suscitare. No, non sto cercando il monastero giusto. Vado per questa strada perché ho il sospetto che le luci nascoste che giungono da questi luoghi siano ancora capaci di offrire qualche solido orientamento. Perfino nella densa penombra calata sui giorni italiani. Busso a queste porte perché ho l'impressione che qui si impari davvero che si può cambiare il mondo, ma – impresa piuttosto complicata – a patto di cominciare a cambiare se stessi, partendo dalle cose più semplici e concrete. Ad esempio, cercando di stare nel mondo prendendone nel frattempo la giusta distanza. Governando in modo diverso faccende quotidiane e basilari come il dormire e il mangiare, il desiderare e il bisogno di riconoscimenti, il silenzio con se stessi e l'incontro con gli altri. Sembrano bazzecole, ma quelli che vi si sono cimentati seriamente dicono che la sfida sia di vertiginosa difficoltà. E, soprattutto, pare duri tutta una vita.
Perché è nella Lista dei Desideri? Perché, come vi ho già detto altrove, Boatti è stata una piacevolissima sorpresa, e non vedo l’ora di leggerlo di nuovo; inoltre, l’argomento di cui tratta in questo libro mi è caro. Mi piacerebbe, un giorno, poter passare del tempo in questi luoghi densi di spiritualità, lontani da tutto, e riuscire a fermarmi, a pensare. La prospettiva di Boatti sarà senz’altro molto personale, ma credo sarà anche abbastanza profonda da trascendere l’esperienza singola e rendere questo suo viaggio altrettanto significativo per i suoi lettori.
Anche per oggi è tutto: spero di avervi fatto scoprire nuovi titoli e di avervi incuriositi.
A presto, con nuovi post sul mio amato Hugo e con nuove recensioni!
Cami
Buonasera a tutti, cari lettori e care lettrici!
Novembre è passato in fretta e ha portato con sé tanti eventi letterari e, sul finire, anche una bella nevicata (perlomeno, qui dove sono io): un modo perfetto per accogliere Dicembre.
Come già sapete, questo mese per me è stato molto movimentato. Sto cercando di prendere il giusto ritmo e di proporvi i post sull’UFG Book Club in alternanza coi contenuti “classici” del blog, così da poter comunque parlare d’altro – in fondo non è un blog monotematico! – e da poter comunque interagire con voi grazie alla varietà d’argomenti. Tengo molto ai post del gruppo di lettura e mi impegno per realizzarli al meglio, ma allo stesso tempo mi rendo conto di come questo sia un progetto destinato a concludersi, mentre le recensioni e le rubriche sono dei capisaldi di questo mio spazietto online. Il succo è: tranquilli, ora che ho imparato a gestire meglio le tempistiche non vi lascerò soltanto con le tappe de I Miserabili!
Altro evento a cui tenevo particolarmente è Bookcity, cui ho partecipato come volontaria. Un’esperienza molto bella e interessante: alla fine dei quattro giorni ero esausta, un po’ infreddolita, ma felice. Ho conosciuto belle persone e, nonostante non abbia potuto seguire tanti incontri, ho comunque vissuto l’atmosfera libresca dell’evento. Inoltre, devo dire che all’Info Point (dov’ero stanziata io) non ci si annoiava mai: tra domande strane e spettatori entusiasti che chiedono consigli sugli eventi, io e le altre due ragazze non avevamo un momento di calma. Scriverò sicuramente un post di resoconto, in cui parlare un po’ degli incontri e un po’ della mia esperienza personale.
Infine, questo mese posso tornare a parlarvi di acquisti letterari. Ebbene sì, il mio bando è finito! Dopo un anno di fioretto e di astinenza dall’acquisto di libri, sono andata al Salone Internazionale del Libro Usato e ho fatto i miei primi due acquisti – e se avessi avuto più della risicata ora e mezza che mi sono concessa prima del turno a Bookcity, so già che sarei tornata a casa con uno zaino carico di libri. Nonostante questo, sono molto felice: quest’anno mi ha aiutata a capire quanto mi faccia sentire bene prendere nuovi libri e contemporaneamente mi ha dato modo di comprendere che non c’è bisogno di accumularne una quantità esagerata ogni mese. Ha cambiato quelle che saranno le mie abitudini d’acquisto, dandomi una nuova morigeratezza, questo è certo: mi sono concessa qualche sfizio su Bookmooch giusto oggi, come regalo di Natale anticipato, ma per il resto credo che la frenesia che sembrava guidare le mie acquisizioni sia stata ridimensionata da questo periodo a secco. Ne sono felice, perché prendere libri con più oculatezza vorrà dire non lasciarli troppo tempo ad aspettare sulle mensole e dedicar loro il tempo che meritano.
Bando alle ciance! Vi mostro i libri che ho preso, due cartacei e due e-book: i primi sono Dio di illusioni di Donna Tartt, autrice molto apprezzata dalla critica americana, e La sinistra e la questione meridionale di Gaetano Salvemini, titolo della collana Laicicattolici che era uscita qualche tempo fa col Corriere (e di cui avevo perso alcune uscite, come questa). I secondi, invece, sono due titoli omaggio, sempre del Corriere, facenti parte della nuova iniziativa chiamata I Corsivi del Corriere della Sera: si tratta di Mr. Bennet e Mrs. Brown di Virginia Woolf e de Il bibliomane di Charles Nodier.
Un piccolo raffinato college nel Vermont. Cinque ragazzi ricchi e viziati e il loro insegnante di greco antico, un esteta che esercita sugli allievi una forte seduzione spirituale. A loro si aggiunge un giovane piccolo borghese squattrinato. In pigri weekend consumati tra gli stordimenti di alcol, droga e sottili giochi d'amore, torna a galla il ricordo di un crimine di inaudita violenza. Per nascondere il quale è ora necessario commeterne un altro ancora più spietato...
“Salvemini è ricordato soprattutto quale meridionalista. Scriveva tra il 1898 e il 1899: “Alle tre malattie, che abbiamo fuggevolmente descritto, ossia la malattia dello Stato accentratore, la oppressione economica in cui l’Italia meridionale è tenuta dall’Italia settentrionale, e infine la struttura sociale semifeudale, è possibile recare un rimedio? … Finché nel Mezzogiorno stesso non si determinerà un movimento energico, costante, organico, che abbia lo scopo di attuare tutte quelle riforme, che per ora non sono che pii desideri degli studiosi.”
Gaetano Salvemini constatava con amarezza non solo l’esistenza di una “Questione meridionale” ma anche di una “Questione settentrionale”: “I nordici disprezzano, come dicon essi, i sudici; e i sudici detestano con tutta l’anima i nordici: ecco il prodotto di quarant’anni d’unità.”
A differenza di altri meridionalisti che invocavano l’intervento dello Stato per affrontare la “Questione meridionale” il politico pugliese sosteneva che la soluzione dei problemi dei meridionali doveva essere nella disponibilità dei meridionali: infatti era un federalista convinto.” (fonte)
Perché, quando a ottobre ricomincia la stagione letteraria, gli editori non riescono mai a fornirci un capolavoro? La domanda che Virginia Woolf pose al suo pubblico della sua lezione alla Cambridge University nel 1924 non ha perso di rilevanza, quasi un secolo dopo. La risposta che fornisce poggia sul problema della costruzione del personaggio: gli scrittori contemporanei, sosteneva già all'epoca il coro unanime dei critici, non sono in grado di crearne di realistici. Ma mentre concorda sull'effetto, Woolf dissente sulla causa: non sono gli scrittori a essere cambiati, dice, sono i tempi; e gli strumenti di lavoro, forgiati dai romanzieri dell'epoca precedente, non sono più adeguati. Urge trovarne di nuovi, costruire nuove convenzioni per arrivare a quella "intimità" con il lettore che costituisce il fine ultimo del lavoro di scrittura. E per fare questo occorre ripartire da quella Mrs Brown, da quella signora dimessa che Woolf incontra in treno e che apre davanti a lei gli scenari vertiginosi di una nuova storia. Fuor di metafora, occorre armarsi di nuova pazienza e imparare daccapo a raccontare quel personaggio incontrato per caso, lo spunto che si impone all'attenzione dell'autore e lo muove con la sua irresistibile capacità di seduzione a trasformarlo in letteratura, per diventare Ulisse, la Regina Vittoria, o Prufrock. Per diventare il protagonista del romanzo che rimarrà con noi tutta la vita.
Théodore è un uomo divorato dalla passione per i libri: ha smesso di parlare, di ridere e di mangiare. Ha rinunciato alla vita mondana e perso interesse per le donne. Durante una passeggiata con un amico per le via di Parigi nei luoghi sacri del libro, tra case editrici e negozi antiquari, scopre malauguratamente l’esistenza di un’altra edizione, più pregiata, del suo «Virgilio del 1676». Iniziano così i deliri bibliografici e le allucinazioni del protagonista, tra rarità in folio e rilegature in marocchino, raccontati con gusto e partecipazione dall’autore. Théodore si ammala della più grave febbre bibliomane e in poco tempo ne morirà. Un racconto non privo di morale – quando l’amore per la forma distrugge la passione dei contenuti, non può esserci lieto fine – ma lieve e ironico, che con ricercatezza e gusto dell’iperbole sa parlare al feticista nascosto in ogni vero lettore.
Per questo mese è tutto: ci risentiamo presto con nuovi post, recensioni e rubriche!
Un abbraccio e buon inizio mese,
Cami
Buongiorno, cari lettori!
Eccoci di nuovo qui, con il post dedicato alla seconda tappa del gruppo di lettura. Le emozioni che mi sta dando la rilettura di questo libro sono davvero intense e sono sempre più convinta di aver fatto a bene ad iscrivermi a questo Book Club.
Prima di cominciare, vi ricordo i tre avvisi con cui ho introdotto il nostro primo appuntamento e che sono validi anche questa volta:
1) in questi post spesso parlerò dettagliatamente di ciò che accade nei capitoli. Se volete evitare gli spoiler, è meglio che torniate a leggere qui quando avrete letto le pagine di cui si tratta.
2) ho scritto molto, condizionata dall’effetto Hugo; ovviamente, la mia speranza è che la lettura risulti comunque di vostro interesse.
3) tutte le citazioni sono tratte da I Miserabili, Victor Hugo, trad. it. Marisa Zini, Mondadori, 2009.
Inoltre, il post principale della seconda tappa lo trovate qui, sempre su Una Fragola al Giorno.
La nostra lettura continua e, man mano che ci inoltriamo in questa Parte Prima, cominciamo a conoscere tutti gli altri personaggi che avranno ruoli importanti nel corso di tutto il romanzo.
I primi a far la loro comparsa, nel Libro Quarto, sono i Thénardier.
Solo citarli mi fa ribollire il sangue; eppure, il primo incontro con questa famiglia si svolge in un’atmosfera soffusa da una luce benevola e materna, data dalla descrizione di Hugo del gioco innocente di due bambine davanti a una taverna che, sotto lo sguardo attento della madre, sfruttano una grossa catena arrugginita come un’altalena, “e nulla era così grazioso come questo capriccio del caso, che di una catena di titani aveva fatto un’altalena di cherubini”. Sembra quasi richiamare la gioia spensierata di un quadro di Fragonard, I felici casi dell’altalena… anche se le piccole non dondolano tra i fiori e lo sfondo non è altrettanto idilliaco.
Sono, comunque, bimbe allegre e una madre dall’aria attenta: un’immagine che suggerisce un focolare domestico felice. C’è forse qualcosa che potrebbe attirare di più una madre preoccupata per il destino della propria prole, cui vorrebbe dare il meglio, e che non sa come farlo?
Essa le contemplava tutta commossa; la presenza degli angeli è un annunzio di paradiso; credette di scorgere al disopra di quell’albergo il misterioso QUI della provvidenza.
Ormai l’avrete capito: è Fantine la madre che osserva, Fantine che spera di poter dare un futuro dignitoso alla sua piccola.
Abbandonata Parigi, dove la sua colpa manifesta le impediva di trovare lavoro, e abbandonata ogni speranza di poter ricevere aiuto da Tholomyès (verso il quale “il suo cuore divenne cupo”, poiché “si infischiava della sua creatura e non prendeva sul serio quell’innocente”), la giovane si è fatta coraggio e ha deciso di tornare a cercare lavoro nel suo paese d’origine, Montreuil-sur-mer.
Le espressioni con cui Hugo rende la forza d’animo di questa giovane, pronta a ogni sacrificio per sostenere la propria bambina, passata dall’essere fanciulla spensierata a madre attenta, sono semplici ma pregne del sentimento di rispetto che evidentemente anche l’autore prova nei confronti del proprio personaggio, cui si somma l’ammirazione verso la maternità in generale (argomento che Hugo tocca qui e in diversi altri punti del romanzo).
Sentì confusamente che stava per cadere nella disperazione e scivolare nel peggio; ci voleva coraggio, ne ebbe e si irrigidì.
[…]
Il cuore le si strinse, ma essa prese la sua decisione: Fantine, lo vedremo, aveva il fiero coraggio della vita.
La decisione di cui si parla è quella, dolorosa, di lasciare in custodia la sua bambina per riuscire a trovare lavoro.
Fantine sa che, non potendo dimostrare di essere sposata, la presenza di una bambina le conferirebbe subito l’etichetta di poco di buono, di svergognata, e che questo le impedirebbe di trovare un impiego che le permetta di sostenere sé e la figlia; per questo motivo, viste le bambine tanto felici di fronte alla locanda (che si chiama Al sergente di Waterloo) e la madre premurosa, decide di chiedere a questa donna ospitalità per la propria bimba, offrendo in cambio l’invio mensile del denaro necessario per mantenerla.
È in questo frangente che l’atmosfera apparentemente idilliaca comincia a perdere la sua luce e a mostrare, a noi lettori consapevoli, l’oscurità che in realtà alberga nei gestori della locanda. La signora Thénardier tace, ascolta l’offerta; il marito, per un momento ancora non visibile, ribatte alzando la posta e chiedendo più soldi, alzando la voce dal fondo della bettola.
Se il fato non avesse fatto fermare lì Fantine, chissà quale sarebbe stata la sua vita! Migliore, forse; diversa, senz’altro. Il fato è una forza imperscrutabile che lo stesso Hugo si esime dal commentare troppo approfonditamente, conscio forse dell’impossibilità, anche per lui, di comprendere il procedere della casualità.
La signora Thénardier era una donna rossa, polputa e angolosa, il tipo di donna da soldati in tutto il suo fare sgraziato; […] Giovane ancora, aveva appena trent’anni; se questa donna, allora lì rannicchiata, fosse stata in piedi, forse l’alta statura e le spalle quadre da colosso avrebbero fin da principio impaurito la viaggiatrice, offuscato la sua fiducia e ciò che dobbiamo narrare non sarebbe avvenuto. Una persona seduta invece che in piedi; a questo sono legati i destini.
Fantine ha visto la signora seduta e ha deciso di fidarsi; e noi lettori non possiamo che fidarci, al contrario, della sensazione strisciante che ci prende quando leggiamo delle contrattazioni che i coniugi fanno con la nostra giovane madre, rivelandosi sin da subito avidi e senza alcuna compassione. “Il topo preso era ben meschino” scrive Hugo, dato che noi conosciamo l’indigenza in cui versa Fantine, “ma il gatto si rallegra anche di un sorcio magro”. E questa frase, che introduce il capitolo Primo abbozzo di due losche figure, conferma la prima impressione data da questa coppia di farabutti e ci lascia intuire che la miseria di Fantine, purtroppo, continuerà a perseguitarla ancora.
Eran di quelle nature nane che, se per caso sono riscaldate da qualche oscura fiamma, divengono facilmente mostruose; c’era nella donna il fondo di un bruto e nell’uomo la stoffa di un miserabile; capaci entrambi al massimo grado di quell’orrendo progresso rivolto solo al male. Esistono certe anime che come i gamberi indietreggiano continuamente verso le tenebre, retrocedendo nella vita più di quanto non avanzino, adoperando l’esperienza ad accrescere la loro deformità, in continuo peggioramento e impregnandosi vieppiù di malvagità crescente. Quell’uomo e quella donna erano anime di tal specie.
Questa è la prima descrizione dei Thénardier; coloristica, composta da parole e immagini che di per sé sono tutto sommato beffarde (la similitudine coi gamberi, che abbassa i toni della narrazione e li adegua alla levatura dei Thénardier, è senz’altro di questo stampo) e che allo stesso tempo, però, preannuncia chiaramente i dolori che affliggeranno la vita della povera Euphrasie (ovverosia Cosette, dolce soprannome per una dolce creatura).
Forse per mitigare momentaneamente la triste situazione della bimba, Hugo si concede un excursus basato sui toni più ironici della descrizione precedentemente fatta anche della signora Thénardier e tratta, con una bonaria ironia che dovrà presto mettere da parte, dei nomi di battesimo altisonanti dati a bambini decisamente non aristocratici, per usare un eufemismo, abitudine data anche dalla lettura dei romanzi popolari tanto amati, appunto, dal popolo. Hugo sembra essere divertito da questo, ma non per questo pare contrario – anzi, lo definisce come uno dei risultati minori del rimescolamento dato dalla Rivoluzione.
Peccato che questa breve parentesi comica sia interrotta subito dalle condizioni in cui i maledetti Thénardier fanno crescere Cosette, una volta che la madre si è allontanata.
Grazie ai cinquantasette franchi della viaggiatrice, Thénardier aveva potuto evitare un protesto e fare onore alla propria firma; i mesi successivi essi ebbero ancora bisogno di denaro, la donna portò a Parigi e impegnò al monte di Pietà il corredo di Cosette per sessanta franchi. Spesi anche questi, i Thénardier si abituarono a considerare la bambina come un essere tenuto in casa loro per carità e la trattarono in conseguenza. Siccome non aveva più corredo, la vestirono con vecchie gonnelline e vecchie camicie delle piccole Thénardier, cioè di stracci. La nutrirono degli avanzi di tutti, un po’ meglio del cane e un po’ peggio del gatto; del resto il gatto e il cane erano i commensali consueti di Cosette, che mangiava con loro sotto il tavolo, con una scodella uguale alla loro.
[…]
Certe nature non possono amare da una parte senza odiare dall’altra; la madre Thénardier amava con passione le proprie figlie e questo le fece odiare l’estranea; è triste pensare che l’amore di una madre possa avere lati così brutti. Per quanto piccolo il posto che Cosette occupava in casa sua, le pareva che fosse sottratto alle sue figliole e che la piccina diminuisse l’aria che quelle respiravano.
Appena è in grado di camminare, a Cosette viene messa una scopa in mano e viene costretta a lavorare nella taverna, alla stregua di una schiava, ridotta a un esserino tutto pelle e ossa – un “allodoletta”, come la chiamano in paese, che però “non cantava mai”. Il quarto libro si conclude così, su una nota di immensa tristezza che denuncia l’orrore dello sfruttamento infantile.
Il quinto libro sposta l’attenzione su Montreuil-sur-mer e ce ne dà una breve descrizione, ponendo subito l’accento su un personaggio ancora ignoto, che tre anni prima dell’arrivo di Fantine (che avviene nel 1818) era giunto in paese e, grazie a una semplice idea per il miglioramento dell’industria manifatturiera del luogo, “si era arricchito, il che è bene, e aveva arricchito tutti intorno a sé, il che è meglio”. Il suo nome è papà Madeleine, presto signor Madeleine, proprietario di una grande fabbrica in paese.
Era un uomo di circa cinquant’anni, buono, e che sembrava preoccupato; ecco tutto quel che se ne poteva dire.
Madeleine appare buono non solo perché ha dato nuova vita a un paese in miseria, ma anche per come si comporta con gli altri e per come concede a tutti la possibilità di mantenersi e di lavorare.
Papà Madeleine dava lavoro a tutti; una cosa sola esigeva: siate un uomo onesto; siate una ragazza onesta.
Inoltre, utilizza gran parte dei suoi immensi guadagni per migliorare le strutture che aiutano gli indigenti e per dare condizioni migliori ai lavoratori; un vero e proprio filantropo, insomma, che come tutte le persone naturalmente buone provocherà curiosità e reazioni contrastanti in paese, dove alcune malelingue si ostinano a credere che la sua sia una messinscena per ottenere chissà quali vantaggi. Eppure, quando a Madeleine saranno offerte delle cariche, o degli onori, questi non li accetterà; e quando verrà invitato dalla buona società (da cui era stato ignorato per le sue origini poco chiare e umili) solo in virtù dei suoi guadagni, questi ignorerà gli inviti e continuerà a dare più attenzione ai miserabili, alienandosi i ricchi benpensanti, che finiranno così per accettarlo a metà, ammirandolo da un lato e trovandolo disdicevole dall’altro.
Hugo sottolinea così la tendenza di coloro che compongono la parte “rispettabile” della società di cercare la malizia nel bene compiuto senza secondi fini; forse perché in un atteggiamento di questo tipo si rispecchia e scorge la sua stessa ipocrisia. Teme questo individuo ricco, filantropo e sfuggente; il suo rifiuto di accettare posizioni di potere può apparire legittimo, ma sotto un certo profilo lo rende anche a-sociale, e da questa mancanza di contatto si redimerà solamente (e solo in parte, secondo la morale borghese) con l’accettazione della carica di sindaco della città, per evitare che rifiutare l’occasione di fare del bene si tramuti in un male:
Nel 1820, cinque anni dopo il suo arrivo a Montreuil-sur-mer, i servizi da lui resi al paese saltavan talmente agli occhi, il voto della regione era così unanime che il re lo nominò di nuovo sindaco della città; rifiutò ancora, ma il prefetto resistette a questo rifiuto, tutti i notabili vennero a pregarlo, il popolo lo supplicava in piena strada, fu tanto viva l’insistenza che finì per accettare: soprattutto, come fu notato, quel che parve deciderlo fu l’apostrofe quasi irritata di una vecchia popolana che dalla soglia della porta gli gridò con stizza:
«Un buon sindaco è utile; c’è forse da indietreggiare di fronte al bene che si può compiere?»
Hugo dunque delinea anche in questo caso un personaggio moralmente degno, buono ma non stucchevole, che ha vissuto e sente fortemente l’ingiustizia che a volte colpisce gli uomini e le donne più deboli; costui valuta azioni e intenzioni con benevolenza e concede il proprio aiuto quando può e al meglio delle sue possibilità, sfruttando appieno i mezzi datigli dal suo ruolo e condividendo la sua conoscenza (che pare provenire sia da esperienze di vita, sia dai libri che man mano acquista).
Un giorno, vedendo alcuni paesani intenti a strappare le ortiche guardò questo mucchio di piante sradicate e già secche e disse:
«Roba morta; e tuttavia sarebbe utile se la sapeste usare: quando l’ortica è giovane, la foglia è un erbaggio eccellente; quando invecchia, possiede fibre e filamenti come la canapa e il lino. La tela d’ortica vale quella di canapa: tritata, serve per il pollame; macinata, per il bestiame bovino; il seme dell’ortica misto al foraggio rende lucido il pelo degli animali: la radice mescolata al sale produce un bel colore giallo; del resto è un fieno eccellente che si può falciare due volte. Cosa occorre all’ortica? Poca terra, nessuna cura, nessuna coltivazione; una cosa sola: il seme cade via via che matura ed è difficile a raccogliersi. Ecco tutto; per poco che ci si occupasse di lei, l’ortica sarebbe utile, trascurata diventa nociva; allora la si uccide. Quanti uomini rassomigliano all’ortica.» Dopo un silenzio, aggiunse: «Amici miei, ricordate questo, non vi sono né erbe cattive, né uomini cattivi, ma solo cattivi coltivatori.»
Credo che questo spezzone spieghi perfettamente qual è il pensiero di questo personaggio così particolare nella sua bontà, che assomiglia in parte a quella del mio amato monsignor Bienvenu. Non cito a caso il suo nome perché, purtroppo, scopriremo proprio in queste pagine che nel 1821 quest’anima buona è trapassata; la notizia, riportata sui giornali, sembra colpire molto il signor Madeleine, che arriva a portare il lutto.
Hugo scrive che il monsignore era nel frattempo divenuto cieco, e che lo assisteva la sorella; mi pare giusto parlarne perché il modo in cui il personaggio (e lo scrittore attraverso lui) affrontano la cecità è peculiare e sembra rifarsi all’immagine tradizionale del cieco che, paradossalmente, sembra riuscire a vedere più di chi ha l’uso degli occhi.
Gli manca qualcosa? No; non si perde la luce quado si possiede l’amore; e quale amore! Un amore fatto interamente di virtù. Dove vi è certezza non vi è cecità; l’anima cerca a tastoni l’anima e la trova; e quest’anima trovata e messa alla prova è una donna.
Mi ha ricordato l’enfasi data alla cecità di un altro personaggio, Déa, protagonista ne L’uomo che ride. Anche in questo caso chi non vede appare come una figura quasi angelica, che può percepire al meglio la natura dell’animo di chi la circonda; alla mancanza della vista viene data un’aura di sacralità non sempre facile da condividere, ma che ha indubbiamente una sua poeticità (soprattutto quando a parlarne è uno scrittore capace di gestire il lirismo in maniera grandiosa, come Hugo).
Detto questo, torno ad affrontare la storia e ciò che sicuramente avrete notato, ovvero che il lutto di Madeleine apre uno spiraglio sulle sue origini misteriose. Molti lettori avranno già compreso, a questo punto, chi sia il signore Madeleine; io ammetto che, all’epoca della prima lettura, fu questo il primo indizio che colsi – ma mi convinsi della sua identità solo dopo un altro paio di avvenimenti. Penso che anche voi abbiate già compreso di chi si tratta, vero?
Se ancora non fosse chiaro, c’è un altro chiaro segno in questo Libro Quinto, che arriva insieme a una delle figure più note di tutta l’opera: l’ispettore Javert.
Javert è uno dei miei grandi crucci. L’ispettore appare sin da subito come un uomo grigio e austero, e nel corso del libro la sua immagine non migliorerà affatto, per usare un eufemismo. Non è un personaggio amabile e, in generale, non è nemmeno gradevole; compirà alcuni gesti terribili, già li compie in queste pagine; eppure non riesco a odiarlo. Parte di questo, credo, è dato dal fatto che il mio odio è talmente rivolto verso quel ributtante farabutto di Thénardier (della cui avidità e piccolezza avete avuto un assaggio in questi capitoli) che difficilmente me ne rimane altro da distribuire, durante la lettura.
Volendo rimanere più seri, credo che questo mio atteggiamento sia dovuto soprattutto alla comprensione delle basi su cui si fonda la sua forma mentis. Tutto il suo personaggio è basato su una morale ferrea che non è sbagliata in sé e per sé, ma che diviene errore nell’estremizzazione con cui viene applicata da Javert: per lui la legge non è solo giusta – concetto condivisibile, nella maggior parte dei casi – bensì è infallibile. L’impossibilità di concepire l’errore come possibile all’interno delle strutture legislative e di giustizia gli impedisce di provare compassione (escludendolo, di fatto, dalla civiltà umana) e di percepire come reale l’eventualità della redenzione e del perdono, rendendolo cieco di fronte alle miserie del mondo. Esempio lampante di questo è la condanna risoluta che attua nei confronti di Fantine, in un episodio di cui parlerò entro qualche paragrafo.
Inoltre, la sua posizione assolutista gli nega la visione di un miglioramento possibile della società e delle sue leggi, poiché se entrambe sono da considerarsi infallibili è lecito pensare che non siano da modificare in alcun modo; il risultato può essere soltanto una realtà stagnante e, paradossalmente, profondamente ingiusta. Sotto questo stesso profilo va indicata anche la sua convinzione riguardante la superiorità innegabile del borghese rispetto al miserabile, così come di una classe socio-economica sull’altra.
Componevano quest’uomo due sentimenti molto semplici e relativamente buoni, ma egli li rendeva quasi malvagi a forza di esagerarli: il rispetto dell’’autorità, l’odio della ribellione; e ai suoi occhi il furto, l’assassinio, tutti i delitti non erano che forme di ribellione. Avvolgeva in una specie di fede cieca e profonda tutto ciò che ha una funzione nello stato, dal primo ministro fino alla guardia campestre, copriva di disprezzo, d’avversione e di disgusto tutto ciò che anche una sola volta avesse oltrepassato la soglia legale del male.
Era assoluto e non ammetteva eccezioni.
Da una parte dice: «Il funzionario non può ingannarsi, il magistrato non hai mai torto» e dall’altra: «Costoro sono irrimediabilmente perduti; nulla di buono potrà scaturirne».
Posso offrire solamente un’attenuante al suo atteggiamento: la sua capacità, perlomeno, di saper giudicare e condannare anche sé stesso. Molti dei più grandi censori sono pronti ad assolversi prontamente, mentre Javert, forte della sua morale di ferro, non esita a scagliarsi anche contro i propri errori – dimostrazione di questo è la sua richiesta al sindaco Madeleine, sul finire del Libro Sesto, di essere destituito dalla sua carica.
«In quanto a esagerare, non esagero affatto. Ecco il mio ragionamento: vi ho sospettato ingiustamente; non è nulla. È il nostro diritto di sospettare, benché sia un abuso sospettare chi ci sta al di sopra. Ma, senza prove, in un accesso di collera, per vendetta, vi ho denunziato come forzato, voi, una persona rispettabile, un sindaco, un magistrato! Questo è grave, gravissimo. Ho offeso l’autorità nella vostra persona, io, agente dell’autorità! Se uno dei miei sottoposti avesse agito in tal modo, l’avrei dichiarato indegno del servizio e cacciato. Ebbene?… Ecco signor sindaco , ancora una parola. In vita mia sono spesso stato severo con gli altri: era giusto. Facevo bene. Adesso, se non fossi severo con me, tutto quel che ho fatto di giusto diverrebbe ingiusto. Devo forse risparmiarmi più degli altri? No. Come, sarei stato solo capace di castigare gli altri e non me? Sarei un miserabile! Quelli che dicono: quel mascalzone di Javert, avrebbero ragione! Signor sindaco, non desidero che mi trattiate con bontà, la vostra bontà mi ha già fatto fare abbastanza cattivo sangue quando era per gli altri. Non ne voglio per me. La bontà che consiste nel dar ragione alla prostituta contro il borghese, all’agente di polizia contro il sindaco, a quello che è in basso contro quello che è in alto, la chiamo una bontà cattiva: con una bontà simile si sfalda la società. Mio Dio, è molto facile essere buoni, il difficile è essere giusti. Eh, se fosse stato quel che credevo, non sarei stato buono con voi, io! Avreste visto! Signor sindaco, devo trattarmi come tratterei chiunque altro. […] Signor sindaco, il bene del servizio esige un esempio. Chiedo soltanto la destituzione dell’ispettore Javert.»
Javert, nella sua visione monolitica del mondo, non riesce ad accettare la bontà, che richiede il perdono e talvolta, in situazioni irrecuperabili, anche la punizione; la sua giustizia è l’applicazione cieca di leggi imposte dall’alto.
Quale che sia l’opinione che si decide di avere su Javert, è innegabile che la sua entrata in scena è accompagnata da alcuni momenti stilisticamente fantastici: una gran pagina di Hugo, espressiva e adatta a questo personaggio “formidabile”. La sua introduzione si intreccia inizialmente a una galleria di simboli di sapore classico legata alla rappresentazione di virtù e vizi degli uomini attraverso gli animali, in cui si mescolano letterarietà, teologia, mitologia e descrizioni vivaci, tutto in pochi capoversi calibrati alla perfezione. Ammetto che, per un momento, mi sono venuti in mente i daimon di Philip Pullman e del mondo da lui descritto nella trilogia Queste Oscure Materie…
Il mondo animale viene citato perché Javert è, sostanzialmente, la realizzazione fisica dell’unione ossimorica tra ordine e forza bruta, tra natura umana e ferina, che a me ricorda anche un altro fenomeno naturale: la lava che scorre sotto le rocce e, lentamente, le fonde e crepa la superficie.
Il volto umano di Javert consisteva in un naso camuso, con due narici profonde verso cui salivano sulle guance due enormi fedine. Ci si sentiva a disagio la prima volta che si vedevano quelle due foreste e quelle due caverne; se Javert rideva, cosa rara e terribile, le labbra sottili si schiudevano e lasciavano scorgere non solo i denti ma le gengive e intorno il naso si formava una grinza schiacciata e selvaggia come sul muso di una belva. Serio Javert era un mastino, quando rideva una tigre. Del resto poco cranio, molta mascella, capelli che gli nascondevano la fronte e ricadevano sulle sopracciglia; tra i due occhi una ruga costante come un segno di collera, lo sguardo torvo, la bocca serrata e temibile, l’aria di comando feroce.
Un personaggio temibile sotto ogni aspetto, dunque, e pronto a mettersi sulla strada del sindaco Madeleine: è l’unico a non fidarsi davvero di lui, poiché lo vede troppo simile a un uomo, conosciuto anni prima in un bagno penale di Tolone… Ma come arriverà a denunciarlo, come abbiamo letto nella citazione che vi ho trascritto più su?
Tutto comincia con una scena concitata, in cui i sospetti di Javert saranno parzialmente confermati, e continua in un episodio particolarmente doloroso (di cui sarà protagonista anche Fantine, come vi ho anticipato più su), che scatenerà la rabbia vendicativa dell’ispettore.
La prima scena vede Madeleine esibire una forza incredibile per aiutare un pover’uomo, papà Fauchelavant, rimasto incastrato sotto un carro; Javert spiega chiaramente di conoscere un solo essere umano capace di sollevare quella carretta da s0lo (il forzato di Tolone, forzato che ben conosciamo…) e Madeleine, pur di non far morire un innocente, esporrà col suo gesto eroico la propria identità. Il riconoscimento tra i due uomini è davvero intenso: basato soltanto sulla forza delle espressioni e dei gesti dei personaggi, rappresenta il momento in cui tutti i lettori, ne sono certa, hanno visto il volto noto dietro al nome di Madeleine.
La seconda scena, invece, occupa l’ultimo capitolo del Libro Quinto e riguarda l’incarcerazione di Fantine a causa di una lite con un borghese: Javert la preleverà per imprigionarla, ma l’intervento del sindaco impedirà che questo accada. È un momento narrativo composto da continui saliscendi emotivi, mentre la nostra giovane donna verrà contesa tra due veri “giganti”, le personificazioni di due sistemi di giustizia agli antipodi: Javert e la sua rabbia spaventano, il sindaco e la sua autorità, mista a vergogna per quella che sente come propria mancanza, commuovono.
Ma come si è arrivati a questo punto, a Fantine trascinata via dalla polizia?
Bisogna fare un terribile passo indietro e vedere fino a dove le persone possono arrivare per divertimento personale o perché si credono in grado di scegliere per gli altri.
Fantine, una volta arrivata a Montreuil-sur-mer, riesce a trovare lavoro proprio nella fabbrica del signor Madeleine. Tristemente, non riesce a mantenere a lungo il segreto dell’esistenza della sua creatura; i pettegolezzi cominciano a girare, le lettere e i soldi che manda ai Thénardier incuriosiscono le malelingue, che subito si attivano.
Certe persone sono malvagie unicamente per bisogno di parlare: le loro chiacchiere, conversazioni in salotto, pettegolezzi in anticamera assomigliano a quei caminetti che consumano subito la legna; occorre loro molto combustile: il prossimo.
Scoperta e additata come svergognata, Fantine viene allontanata dalla fabbrica da una sorvegliante, senza che la voce giunga al padrone; intanto, i Thénardier continuano a chiedere sempre più soldi, adducendo scuse su scuse.
La giovane madre deve abituarsi al discrimine, alle occhiate del paese, e riprende a lavorare come sartina. Ma le lettere continuano ad arrivare: i locandieri dicono che Cosette ha freddo; si fa rasare e vende i suoi bei capelli biondi. Dicono che ha una malattia e senza medicine morirà: Fantine si fa estrarre i suoi incisivi perlacei per trovare i soldi.
Questo capitolo atroce, Il successo continua, in cui vengono descritti i mezzi di sussistenza che si fanno via via più miseri, è pervaso da una grande tristezza e sembra fungere da punta che stuzzica e pizzica il cuore, aizzando il sentimento di indignazione che è sopito nel lettore e spingendolo alla riflessione sulle disuguaglianze sociali. Fantine cade sempre più giù nel baratro a causa dell’avidità e dal moralismo altrui: la sua abnegazione, tuttavia, non sembra mai abbandonarla, almeno fino a quando non tocca il fondo, in un crescendo di pathos che porta il capitolo a chiudersi con frasi icastiche e brevi, destinate a sconvolgere il lettore di allora e a scuotere noi che lo leggiamo secoli dopo.
I debitori erano più che mai spietati. Il rigattiere che si era ripreso quasi tutti i mobili, non faceva che dirle: Quando mi pagherai, sgualdrina? Ma che cosa volvano da lei, buon Dio! Ella sentiva che le davano la caccia e si sviluppava in lei qualcosa dell’animale feroce. Pressappoco in quel tempo il Thénardier le scrisse che decisamente aveva aspettato con troppa bontà e che gli occorrevano cento franchi, subito; altrimenti avrebbe messo alla porta la piccola Cosette, ancora convalescente della sua grave malattia, col freddo e i pericoli della strada che si aggiustasse come poteva; magari sarebbe anche crepata, se le piaceva. Cento franchi! Pensò Fantine. Ma dove c’è un mestiere da guadagnare cento soldi al giorno?
«Su» si disse «vendiamo il resto.»
La disgraziata divenne prostituta.
A queste parole segue un capitolo intenso, denso sia per i concetti che esprimere, sia per la sintassi scelta dall’autore: Christus nos liberavit, in cui Hugo esprime chiaramente quello che è il suo pensiero sulla situazione che il suo personaggio è costretto a vivere, è un’arringa che fuoriesce momentaneamente dallo scorrere degli eventi per sottolineare la disumanità di una vita costretta all’annichilimento fisico e mentale.
È un’accusa e, allo stesso tempo, il pianto di un uomo che non riesce a concepire come il suo paese, addirittura il suo Dio possano permettere una miseria così totale.
Che cos’è questa storia di Fantine? E’ la società che compra una schiava.
A chi? Alla miseria.
Alla fame, al freddo, all’isolamento, all’abbandono, all’indigenza. Doloroso mercato: un’anima per un pezzo di pane. La miseria offre, la società accetta.
[…] Al punto cui siamo giunti di questo dramma doloroso non rimane più nulla a Fantine di quel ch’essa fu altra volta. Diventando fango, è diventata marmo. Chi la tocca ha freddo. Ella passa, vi subisce e vi ignora; è la figura disonorata e severa. La vita e l’ordine sociale le hanno detto la loro ultima parola: tutto quel che le dovrà toccare in sorte le è già toccato: tutto ella ha patito, tutto sopportato, tutto provato, tutto sofferto, tutto perduto, tutto pianto. È rassegnata di quella rassegnazione che assomiglia all’indifferenza come la morte assomiglia al sonno. Non evita più nulla: non teme più nulla. Si scateni su di lei tutto il nembo e passi su di lei tutto l’oceano! Che le importa! È una spugna satura. Così almeno ella crede, ma è un errore supporre di esaurire la sorte e di toccare il fondo di qualsiasi cosa.
Ahimè! Che sono tutti questi destini spinti così alla rinfusa? Dove vanno? Perché sono tali?
Colui che lo sa vede tutta l’ombra.
È solo. Si chiama Dio.
È in queste condizioni, mentre passeggia in attesa di clienti, che Fantine comincia la lite con il borghese, a causa di un suo stupido scherzo, di un po’ di neve che lui le ha infilato tra le scapole nude. La rabbia che mi provoca questa scena è immensa, perché l’uomo che la infastidisce lo fa per puro sollazzo e le conseguenze del suo gesto non ricadranno mai su di lui, autore del torto, ma su di lei, colpevole in quanto socialmente inferiore.
Portata in carcere, come ho già scritto, sembra quasi di essere di fronte a una contesa per la sua anima; quando è Madeleine a vincere il confronto, una nuova serenità sembra essere possibile. Lo stesso Madeleine dice, a lei e un po’ anche al lettore, che “questo inferno da cui uscite è la prima forma del cielo: bisognava cominciare da lì”. Forse una frase non del tutto convincente, per noi che non abbiamo vissuto la vita di questa giovane; per lei, però, sono parole che segnano una rinascita.
La nota di speranza con cui si chiude il Libro Quinto permette, dunque, di tirare un lungo sospiro di sollievo, un soffio trattenuto dall’inizio della discesa di Fantine.
La conclusione del Libro Sesto (e di questa tappa), al contrario, promettono esattamente l’opposto.
Le frizioni tra Javert e Madeleine hanno raggiunto il parossismo; Fantine sconta gli anni passati al freddo, usurata dalla fatica; un uomo, a quanto pare riconosciuto come Jean Valjean, è stato catturato e sta per essere condannato… Sempre che un certo sindaco non decida altrimenti, esponendosi.
La strada da percorrere prima della pace è ancora lunga.
Frasi meritevoli che, per un motivo o per l’altro, non ho inserito nel corpo del post
«Questa miserabile ha insultato il signor sindaco.»
«Ciò mi riguarda» disse Madeleine. «La mia ingiuria mi appartiene, forse. Posso farne quel che voglio.»
«Chiedo scusa al signor sindaco. La sua ingiuria non appartiene a lui, ma alla giustizia.»
«Ispettore Javert» replicò Madeleine «la prima giustizia è la coscienza. Ho sentito questa donna; so quello che faccio.»
Buongiorno a tutti!
Comincia ufficialmente con questo post, come promesso ieri, il progetto legato alla ri-lettura de I Miserabili; organizzato secondo l’evento creato da Fragola, ci terrà occupati per i prossimi mesi. Il post principale dedicato alla prima tappa lo trovate qui, su Una Fragola al Giorno.
Tre avvisi prima di cominciare: primo, in questi post spesso parlerò dettagliatamente di ciò che accade nei capitoli. Se volete evitare gli spoiler, è meglio che torniate a leggere qui quando avrete letto le pagine di cui si tratta.
Secondo, mi sono dilungata un po’: l’effetto Hugo, sommato a una mia naturale tendenza alla chiacchiera, ha fatto più danni di quanto pensassi. D’altronde, i primi capitoli sono solitamente quelli che hanno bisogno di un’analisi più approfondita. Spero comunque di fornirvi una lettura interessante.
Terzo, tutte le citazioni sono tratte da I Miserabili, Victor Hugo, trad. it. Marisa Zini, Mondadori, 2009.
La prima tappa va dal primo al terzo libro della Parte Prima, intitolata Fantine.
La citazione con cui si apre il libro sottolinea sin da subito quale sia la posizione dell’autore nei confronti dei miserabili, citati sin dal titolo:
Finché esisterà, per colpa delle leggi e dei costumi, una condanna sociale che, in piena civiltà, crea artificialmente degli inferni e mescola al destino, che è divino, una fatalità umana; finché i tre problemi del secolo, la degradazione dell’uomo per causa del proletariato, l’avvilimento della donna per causa della fame, l’atrofia del fanciullo per causa delle tenebre, non saranno risolti, finché sarà possibile in certe sfere l’asfissia sociale; in altre parole da un punto di vista ancor più esteso, finché sulla terra vi saranno ignoranza e miseria, libri della natura di questo non potranno essere inutili.
Hauteville-House, 1° gennaio 1862
Un’introduzione quanto mai densa e piena di significato, visto quanto ci apprestiamo ad affrontare: un’accusa alla società che chiude gli occhi.
Eppure, quando ho aperto il libro e ho cominciato a leggere, non ho potuto fare a meno di mettere un attimo da parte questo messaggio, perché mi sono sentita avvolta da una sensazione meravigliosa, come stessi riabbracciando un vecchio amico.
Nel 1815 Charles-François-Bienvenu Myriel era vescovo di Digne; vecchio di circa settantacinque anni, occupava il seggio di Digne dal 1806.
Benché questo particolare non c’entri per nulla col fondo stesso della nostra narrazione, non è forse inutile, non foss’altro che per scrupolosa esattezza, accennare qui alle voci e alle chiacchiere corse sul suo conto al tempo in cui egli era giunto nella diocesi. Vero o falso, quel che si dice degli uomini occupa spesso nella loro vita, e soprattutto nel loro destino, un posto uguale alle loro azioni.
Monsignor Bienvenu viene presentato così, cominciando a parlare del suo passato vero e presunto, con quel gusto per la descrizione delicata e per l’aneddoto sagace che spesso distingue Hugo.
Ad esempio, l’autore parla della sorella del vescovo, Baptistine, con parole lievi quanto la persona che descrivono:
La magrezza dell’età giovanile era divenuta nella maturità trasparenza, e questa diafanità lasciava intravedere l’angelo. Più ancora che una vergine era un’anima; la sua figura pareva fatta d’ombra, appena quel tanto di corporeo perché vi fosse un sesso; un po’ di materia per racchiudere una luce; grandi occhi sempre chiusi; un pretesto perché un’anima rimanga sulla terra.
È il vescovo, però, a dare il nome al primo capitolo; è quindi a lui che viene dedicata maggior attenzione.
Le sue azioni e la narrazione della sua storia, sia attraverso fatti di tutti i giorni che mediante avvenimenti e incontri di un certo calibro, sembrano consegnarci l’immagine di un uomo che diviene epitome del comandamento dei Vangeli, ama il prossimo tuo come te stesso, fino ad assumere la parvenza di figura Christi, come Hugo sembra lasciar intendere; allo stesso tempo, assume la verve di una figura socratica, grazie alla bonaria ironia che lo spinge a distruggere le vane certezze altrui con risposte argute, cortesi ma taglienti quando necessario.
Il suo operato come vescovo scalda il cuore: porto come esempio principale il suo continuo privarsi dei propri beni in modo da donarli ai poveri. Così si è guadagnato il suo nome:
Poiché i vescovi sogliono elencare i loro nomi di battesimo al principio delle ordinanze o delle lettere pastorali, i poveri del paese quasi per un istinto affettuoso, avevano scelto tra i nomi e i prenomi del vescovo quello che presentava per loro un significato, e lo chiamavano soltanto monsignor Bienvenu. Noi faremo altrettanto e all’occorrenza lo chiameremo così. Del resto, tale appellativo gli garbava:
«Mi piace questo nome» diceva. «Bienvenu corregge il monsignore.»
Si tratta, insomma, di un uomo praticamente perfetto nella sua santità; eppure, sarà la candida ironia di cui vi ho parlato, sarà la sua bontà, sta di fatto che non risulta artefatto, né odioso. Forse perché noi stessi (o perlomeno, io) vorremmo essere partecipi della sua perfezione, come dei discepoli, standogli al fianco sia mentre studia che mentre zappa nel suo giardino, usando “una unica espressione; darsi al giardinaggio, 'perché lo spirito è un giardino'”, come scrive lo stesso Hugo.
La sua visione evangelica si pone in contrasto con quella ipocrita di quei virtuosi che, tutti presi dalla propria fede impeccabile, dimenticano il destino di chi è loro fratello ed è caduto. Monsignor Bienvenu non dimentica la carne di cui è fatto l’uomo, né le ingiustizie che a volte la società elargisce e che schiantano ogni possibilità di redenzione.
«Errate, cadete, peccate, ma siate giusti. Peccare il meno possibile è la legge dell’uomo; l’assenza di peccato è il sogno dell’angelo. Ogni cosa terrestre è soggetta al peccato; esso è una gravitazione.»
Quando sentiva la gente gridar forte e indignarsi subito: «Oh, oh!» diceva sorridendo «a quanto pare questo è un peccataccio che tutti commettono. Ecco le ipocrisie sgomente che si sbrigano a protestare e a mettersi al riparo.»
Era indulgente verso le donne e verso quei disgraziati su cui grava il peso della società; diceva: «Le colpe delle donne, dei fanciulli, dei poveri e degli ignoranti sono le colpe dei mariti, dei padri, dei padroni, dei forti, dei ricchi e dei sapienti.» E ancora: «A quelli che non sanno, insegnate quanto più potete; la società è colpevole di non dare l’istruzione gratuita; essa è responsabile delle tenebre che produce». Quest’anima è piena d’ombra, perché vi si commette peccato: colpevole non è chi vi genera il peccato, bensì chi vi genera l’ombra.
Come si nota anche dalla frase che conclude questo estratto, Hugo è un narratore presente, che non esita a palesarsi con degli incisi personali e con dei giudizi su chi sta agendo, o su ciò che accade. Personalmente, io lo adoro anche per questo: sembra quasi partecipare con me alla sorte dei personaggi, come se fosse al mio fianco durante la lettura.
Altro esempio, emblematico anche delle posizioni politiche di Hugo, è l’accenno che fa all’esperienza del vescovo di fronte all’esecuzione di un condannato che ha appena confessato: la sua descrizione della ghigliottina smuove nel lettore un istinto atavico, una repulsione della morte che ci fa voltare lo sguardo; una ripresa di quanto scritto ne L’ultimo giorno di un condannato a morte (1829), poi approfondita quando ci verranno rivelate le riflessioni di Jean Valjean e la loro causa principale, ossia il trattamento riservatogli dalla giustizia. Ma di queste parleremo più tardi; ora vorrei concedere altro spazio al monsignore, visto che il nostro protagonista ne avrà molto in seguito.
Torniamo a Bienvenu, dunque; ormai vi starete chiedendo che altro c’è da dire, di questo essere che pare perfetto. Ebbene, devo pormi in parte contro quello che io stessa ho scritto prima e ammettere che il vescovo talvolta cade nel torto, e Hugo ci mostra anche questo con dovizia di particolari – rendendolo un personaggio ancora più luminoso di quanto già non fosse, poiché le sue piccole ombre non fanno che dare risalto alla sua luce.
L’episodio che più colpisce, in questo senso, è il confronto tra il monsignore e G., convenzionale (ovverossia membro della Convenzione nazionale francese) di cui non sapremo mai il nome completo, che abita al di fuori del paese. Il dialogo tra i due scardina alcune delle certezze di Bienvenu, di origini nobili e realista, riguardanti la Rivoluzione: ne mette in evidenze le brutture, come il terribile 1793, ma allo stesso tempo sottolinea la sua necessità storica e morale, la giustizia di fondo che ha portato al ribaltamento dell’ordine antico. Questa parte è particolarmente apprezzabile se si ha almeno un’infarinatura storica; io stessa, rileggendo le loro argomentazioni, le ho apprezzate molto di più ora che ho dato l’esame di Storia Moderna che durante la prima lettura, in cui certi avvenimenti avevano dei contorni sfumati, poco chiari.
Per questo motivo mi permetto di segnalarvi alcuni dei libri su cui ho preparato l’esame e che, se l’argomento è di vostro interesse, vi saranno senz’altro utili:
Troverete più informazioni a riguardo cliccandoci sopra. Sottolineo, anche col rischio di risultare ridondante, che la lettura de I Miserabili si apprezza moltissimo anche senza una preparazione storica approfondita, com’è accaduto a me durante la prima lettura; averla permette un’esperienza più consapevole, senza dubbio, ma non è fondamentale.
Chiuso questo piccolo excursus accademico, torniamo al nostro Bienvenu. Hugo sfrutta questo suo incontro col convenzionale anche per sottolineare la marginalità, nonostante tutto, delle vedute politiche del vescovo: nella sua vita non hanno poi tanto spazio, sono “cadute perdonabili”, visto che l’unica legge cui è veramente soggetto è quella della carità, da concedere a tutti coloro che ne hanno bisogno. Tuttavia, l’autore sfrutta il momento per esprimere parte del proprio pensiero, condannando chi fa la banderuola, seguendo il potente del momento.
Le digressioni di Hugo, strumento evidentemente da lui amato e di cui fa ampio sfoggio, è “il bello che è altrettanto utile dell’utile”, per dirla con parole che lui stesso mise in bocca al monsignore: un mezzo che forse molti lettori odierni non apprezzeranno fino in fondo, ma che è fondamentale per l’autore, che attraverso questo punta all’arricchimento e alla presa di coscienza di chi legge, senza dimenticare anche la possibilità di esprimere il suo credo personale (sia morale che politico – molti saranno gli excursus sul popolo francese, ad esempio), mescolando all’arte un fine sociale e più ampio. Inoltre, gli concede la possibilità di mettere in mostra il suo genio letterario, talvolta con certi virtuosismi che non tutti si possono permettere; un’applicazione sopraffina della massima miscere utile dulci, in linea in fondo con quello che era lo spirito del tempo.
Potremmo ascrivere alla categoria delle digressioni anche gli ultimi capitoli di questo Libro Primo, in cui si parla dell’ortodossia del pensiero del vescovo e della sua presa di posizione nei confronti dei dogmi; argomento che potrebbe sembrare poco entusiasmante, e che pure Hugo rende in maniera vivace e appassionata, anche attraverso un uso oculato delle figure retoriche, come l’enumerazione incalzante degli ultimi paragrafi:
«Ma via, guardate lo spettacolo del mondo; guerra di tutti contro tutti; il più forte è il più intelligente: il vostro amatevi gli uni con gli altri è una sciocchezza.»
«Ebbene» rispose monsignor Bienvenu senza discutere «se è una sciocchezza, l’anima deve rinchiudervisi come la perla nell’ostrica.»
E davvero egli ci si chiudeva, ci viveva, se ne appagava completamente, lasciando da parte gli enormi problemi che attirano e spaventano, le prospettive insondabili dell’astrazione, i baratri della metafisica, tutte quelle profondità che per l’apostolo convergono a Dio, per l’ateo al nulla; il destino, il bene e il male, la lotta dell’essere contro l’essere, la coscienza dell’uomo, il sonnambulismo pensoso dell’animale, la trasformazione attraverso la morte, il riepilogo delle esistenze che il sepolcro contiene, l’incomprensibile innesto degli amori successivi sull’io persistente, l’essenza, la sostanza, il Nihil e l’Ens, l’anima, la natura, la libertà, la necessità; problemi irti, folti grovigli sinistri su cui si chinano i giganteschi arcangeli dello spirito umano; formidabili abissi che Lucrezio, Manu, San Paolo e Dante contemplano con quell’occhio folgorante che, guardando fisso l’infinito, pare vi faccia schiudere le stelle.
Monsignor Bienvenu era semplicemente un uomo che constatava dall’esterno le questioni misteriose senza scrutarle, senza agitarle, e senza turbare con questo la propria mente, e che aveva nell’animo il grave rispetto per l’ombra.
Una conclusione che riporta Bienvenu sul piano umano, rendendo chiaro che la sua santità non deriva dal filosofeggiare sui massimi sistemi, quanto dalla riflessione dell’uomo semplice, che ha colto nel corso della vita, anche attraverso il peccato e la perdizione, la dolcezza di Dio. Riavvicinandolo alle persone comuni lo rende un esempio imitabile e non un’immagine irraggiungibile.
La luminosità di questo Giusto, che dà il titolo al Libro Primo, sarà fondamentale per il percorso di colui che incontreremo all’inizio del Libro Secondo, il protagonista vero e proprio del romanzo: Jean Valjean.
Che entrata triste gli riserva Hugo! Quanta sofferenza lo segue, sin dalla sua apparizione! Viaggiatore stanco, sporco e affamato, sarà subito rifiutato dalle locande a causa del suo passato da galeotto, che è tenuto a comunicare presso ogni comune in cui si ferma e che lo rende subito inviso ai paesani: “Liberazione non è libertà. Si esce dalla galera ma non dalla condanna” scrive lo stesso Hugo.
L’uomo abbassò il capo, raccolse il sacco che aveva deposto a terra e se ne andò.
Infilò la strada principale; camminava alla ventura, diritto dinanzi a sé, rasentando le case, come un uomo umiliato e triste. Non si voltò neppure una volta, ma se l’avesse fatto, avrebbe visto l’albergatore della Croce di Colbas sulla soglia della porta, attorniato da tutti gli avventori e da tutti i passanti che parlavano animatamente segnandolo a dito e dagli sguardi diffidenti e spaventati del gruppo avrebbe indovinato che di lì a poco il suo arrivo sarebbe stato l’avvenimento di tutta la città.
Ma non vide nulla di tutto ciò: le persone abbattute non si guardano alle spalle; fin troppo bene sanno che la cattiva sorte li segue.
Si presenta subito come miserabile, Jean, abbruttito e rifiutato; battuto, eppure non ancora sconfitto, perché vive in lui un’umanità inesprimibile, che combatte e rifiuta d’arrendersi, per cui gli brillano gli occhi “sotto le sopracciglia come un fuoco sotto un cespuglio”. Quando Hugo nel capitolo VI descrive la sua vita e come sia arrivato a passare diciannove anni al bagno penale, solo per aver tentato di rubare un tozzo di pane, lì si comprende davvero quanto sia grande lo spirito umano, se riesce a sopravvivere anche solo in parte a una tale miseria.
L’autore non si limita ad elencare le brutture e le violenze sopportate, ma ne parla con uno stile tale da rendere impossibile la mancanza d’empatia. Sfrutta un armamentario retorico dotato di periodi stratificati e densi di subordinate, in alternanza a frasi brevi, nei momenti più intensi persino nominali; sententiae di matrice senecana che riescono a rendere su carta la prostrazione. Quando nel capitolo successivo (La disperazione messa a nudo) allarga il discorso nel tentativo di trovare la causa primigenia della situazione non solo di Valjean, ma dei galeotti e dei miserabili in generale, la narrazione cede il passo alla dissertazione e l’autore riprende un discorso da lui già affrontato in altra sede, ovvero ne L’ultimo giorno di un condannato a morte, come vi accennavo più su. Tuttavia, è una ripresa migliore, più forte, non solo per il perfezionamento stilistico dell’autore, ma anche grazie al pathos che Jean Valjean le conferisce, assai superiore rispetto a quello del condannato senza nome del libretto del ‘29. Rendendo noto a noi lettori tutti i perché, i chi, i come rende ancora più crudeli gli interrogativi che Valjean si pone, mettendo in evidenza l’assurdità di una giustizia che rende l’uomo peggiore di quanto non fosse prima di finire sotto il suo giogo.
L’abbruttimento coglie l’oppresso e lo riduce a bestia, un corpo privo di coscienza che vede solo oscurità. Senza possibilità di redenzione, perché colmo d’odio: sentimento legittimo, ma pur sempre imperdonabile. È la situazione di Jean, che da ladro per necessità è effettivamente divenuto un criminale, perché ormai è l’unico modo in cui crede di poter sopravvivere.
A volte non sapeva neppur bene cosa sentisse; viveva nelle tenebre, soffriva nelle tenebre, odiava nelle tenebre; procedeva – per così dire – odiando. Viveva abitualmente in quest’ombra, brancolando come un cieco e come un visionario; soltanto a tratti gli veniva improvviso dall’intimo o dal di fuori uno scoppio di collera, un accrescimento di sofferenza, un debole e fuggevole bagliore che gli illuminava tutta l’anima e gli scopriva repentinamente intorno, davanti o dietro, al chiarore d’una luce sinistra, gli orridi baratri e le truci prospettive della sua esistenza.
Nel capitolo L’onda e l’ombra Hugo crea un’analogia portentosa, rendendo la disperazione un mare in cui l’uomo e la speranza affondano come naufraghi: non so se si sia mai trovato in balia del mare aperto, in acque scure e sconosciute, preso dal terrore dell’immenso che sembra aprirsi sotto di sé; ma personalmente ho vissuto un’esperienza simile e posso dire che è riuscito a farmela rivivere in maniera vivida. Sento di poter dire che Hugo e le tempeste sono un binomio perfetto (e ne ho la prova anche ne L’uomo che ride, dove la parte dedicata a un terribile naufragio dura ben più di un capitolo).
Solo il caso e le parole di una signora gentile permetteranno a Jean Valjean, dopo esser stato rifiutato da tutti, di bussare alla giusta porta: l’uscio sempre aperto di monsignor Bienvenu. Il vescovo gli dà un pasto caldo, un letto dove dormire, delle parole gentili; lo accoglie chiamandolo “mio fratello” e “signore”; non gli rivela il proprio ruolo ecclesiastico, né gli rivolge parole moraleggianti, ma gli apre semplicemente le braccia accogliendolo come un viandante che si è perso. Una vera e propria pecorella smarrita. “L’ignominia ha sete di rispetto” scrive Hugo, e Bienvenu disseta Valjean il più possibile, per ridargli l’umanità che gli hanno tolto: arriva a tirar fuori le posate buone e i candelabri, tutti d’argento, per trasformarlo da poveraccio a ospite rispettabile.
E nonostante questo, nonostante l’amore caritatevole che gli viene rivolto, Jean non è ancora pronto ad accettare la sua umanità perduta e, come chi sta al buio e improvvisamente torna alla luce del giorno, il nostro protagonista rimane accecato e reagisce come la belva che è diventato: ruba l’argenteria e scappa col favore del buio, mentre tutti dormono.
Anche in questo frangente, la resa del tumulto interiore prima e durante la ruberia è incredibile: è un accumularsi di frasi brevi, domande retoriche, immagini oscure e universali che danno al periodare un andamento acceso e svelto, fino al momento del dunque, in cui il discorso diviene solenne e lento, per poi chiudersi con velocità in una serie di coordinate conclusive, che rendono bene anche l’immenso senso di colpa che schiaccia il petto del galeotto.
Senso di colpa che raggiungerà il parossismo quando, scoperto, si vedrà scagionato dallo stesso Bienvenu, che gli fa dono anche dei candelabri (che Valjean non aveva preso). Di fronte ai gendarmi che chiedono spiegazioni, il vescovo dice di aver comprato la sua anima, di avergli fatto promettere di divenire un galantuomo; e anche se Jean queste parole non le ha mai pronunciate davvero, le sente sedimentarsi nel petto quando sarà libero di andare. Personalmente, questo gesto mi ha commossa.
Bienvenu dona la vita e la libertà a Jean Valjean; con l’argenteria gli restituisce davvero la sua anima e gli regala la fiducia e la speranza.
Qui si esplica il lungo preambolo del Libro Primo: la scena assume tutta un’altra profondità, perché la conoscenza che abbiamo di entrambi permette a Hugo di evitare una fastidiosa stucchevolezza, che altrimenti sarebbe stato difficile scansare.
Sarebbe bello poter dire che la rinascita del galeotto avviene subito dopo questa seconda illuminazione; tuttavia, il nostro dovrà cadere e rinascere una terza e ultima volta, prima di poter tornare alla propria vita come uomo.
L’ultima caduta sembra quasi la peggiore: sulla strada, senza alcun vero motivo, Jean ruberà i quaranta soldi di un ragazzino di nome Petit-Gervais. Sopraffatto dalla bontà del vescovo, scosso, ruba una moneta a un innocente senza nemmeno rendersene conto, compiendo una violenza come fosse un gesto automatico.
Si tratta dell’ultimo gesto impostogli da un crudele riflesso incondizionato, che gli ha per un momento oscurato il raziocinio: sarà il colpo di grazia grazie al quale, una volta resosi conto dell’accaduto, riaprirà le sue ferite e permetterà al balsamo caritatevole del monsignore di insinuarsi nel suo essere e di mondarlo. Il disprezzo che il lettore prova per un momento, vedendolo compiere un gesto così cattivo e gratuito, si tramuta in pietà non appena si rende conto di quanto quest’ultimo male fosse necessario per raggiungere il bene. Jean piange e, bagnato dalle prime lacrime che versa dopo diciannove anni, vediamo il suo nuovo volto.
Il Libro Secondo si chiude così, tra il pianto e la preghiera, sulla soglia di una definitiva rinascita.
Il Libro Terzo è breve, rispetto ai due precedenti, e ci presenta un altro personaggio importante: Fantine. Molti di voi la ricorderanno solo per le sofferenze da cui è notoriamente afflitta, rese celebri in tempi recenti dall’interpretazione di Anne Hathaway; tuttavia, il nostro primo incontro con lei è tutto sommato felice. È una ragazza giovane, nel fiore degli anni, dai capelli d’oro e dai denti perlacei, presa dalla gioia semplice degli innamorati; trasferitasi dalla campagna alla città, lavora e “poi, sempre per vivere, perché anche il cuore ha fame, ella amò.”
La vediamo mentre chiacchiera e passa le sue giornate con altre tre ragazze, un po’ più di mondo e frivole, e con quattro ragazzi, tra cui il suo primo amore, Félix Tholomyès. I quattro sono studenti parigini, mantenuti dalle rendite dei genitori, gaudenti acculturati che si credono saggi e da ubriachi s’atteggiano a profondi conoscitori dell’essere. Quella che per Fantine è una relazione intensa, per Félix è una passione passeggera; le altre sono consce della natura transitoria del loro rapporto, Fantine vive l’idillio.
L’amore è una colpa: sia pure. Fantine era l’innocenza che sopravvive alla colpa.
Quando i quattro, dopo una giornata passata a divertirsi al parco, le abbandoneranno una volta per tutte, Fantine si ritroverà sola e con il frutto del suo amore non corrisposto in grembo. Le ultime frasi spezzano la felicità iniziale e preparano, mentre ancora non si sono spenti gli echi delle ultime gioie, le miserie che dovrà affrontare questa giovane donna.
Un’ora dopo, rientrata nella sua camera, ella pianse. Era, l’abbiamo detto, il suo primo amore; si era data a Tholomyès come a un marito, e la povera ragazza aveva una creatura.
Frasi meritevoli che, per un motivo o per l’altro, non ho inserito nel corpo del post
Alla prossima puntata,
Camilla