lunedì 19 settembre 2011

Due anni tra le pagine!


2 anni!

Stento ancora a crederci, eppure eccoci qui, a festeggiare il secondo anno di vita di Bibliomania. Due anni, ci pensate? Due anni che scrivo le mie opinioni e due anni che voi, con una gentilezza e una partecipazione che mi sorprende sempre, rispondete e commentate.
Per questo vi ringrazio – di nuovo, sempre; per esserci stati, per esserci ora e, si spera, per esserci poi.
Grazie per aver sopportato la scarsa quantità di contenuti che pubblico (un po’ dovuti alla maturità, ma soprattutto dovuti al mio pericoloso mix di maniacalità e pigrizia); grazie per l’affetto virtuale che dimostrate. Insomma, grazie, punto!
Ma, diciamocelo, che compleanno sarebbe senza qualche sorpresa, senza qualche regalo? Solitamente sono gli invitati a dare qualcosa al festeggiato, ma visto che qui ci piace uscire un po’ dagli schemi ho deciso di ribaltare la cosa! Come, vi chiedete? Lo vedrete presto; ora non vi spiego nulla – voglio mantenere la sorpresa – ma sappiate che in palio c’è sicuramente qualcosa che desiderate…
Cosa fare per ottenerlo e festeggiare con Bibliomania? Semplice: compilate il form (cliccate qui!) e poi aspettate sino al 3 Ottobre, la fine della seconda* fase. Non ve ne pentirete! 
Le domande vertono, ovviamente, sui libri: e ora su, correte, compilate in tanti!

Ma passiamo a cose più "frivole"... ho deciso, come l'anno scorso, di cambiare un po' il look della pagina; volevo qualcosa di più colorato e sbarazzino, dopo due anni fissa sulle tonalità del marrone! Che ne dite, vi piace? Il vostro parere è importante, fatemi sapere che ne pensate.
Sento un "vento di cambiamento" (sarà l'università alle porte?) e ho voluto portarlo anche tra le pagine cibernetiche di questo mio (e vostro) piccolo spazio.

Per oggi, è tutto... Ma ho molte cose in serbo per voi! Ho tante recensioni in "cantiere", qualche iniziativa che sto delineando, e chissà quali progetti potrebbero bussare alla mia porta, in futuro; insomma, ce n'è per tutti i gusti. Tutto, ovviamente, nella speranza che questo sia un altro anno pieno di letture!

Sempre vostra,
Camilla
(che oggi canticchierà "Tanti auguri" tutto il tempo)

* sì, avete letto bene, la seconda fase. La prima - che parte in contemporanea alla seconda, cioè ora - finirà il 26 Settembre e, per parteciparvi, dovrete commentare questo post scrivendo qual è la recensione che, per ora, vi è piaciuta di più, magari anche aggiungendo il perché. Chi lo farà avrà diritto ad un piccolo extra, una stupidata che però spero possa far piacere... Saprete cos'è, però, solo il 3 Ottobre; mi piace mantenere un po' di mistero ;)

 

domenica 18 settembre 2011

Human Traces–Sebastian Faulks

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 Titolo:Human Traces
Autore:Sebastian Faulks

Anno:2005

Editore:Vintage Books
ISBN:
978-0-099-45826-5

Pagine:793

Trama:Thomas Midwinter e Jacques Rebière sono due ragazzi dalle origini diversissime ma uniti dal caso grazie ad un interesse comune: la psiche umana. Attraverso gli anni e gli avvenimenti, studieranno ciò che più di tutto li appassiona: ciò che ci rende umani.

Questo romanzo, lo ammetto, mi mette in difficoltà: se, da una parte, mi è piaciuto molto, dall’altra ho riscontrato diversi difetti che non mi hanno permesso di apprezzarlo del tutto.

La storia, sin dalla trama, mi aveva attirata subito e mi aveva spinto a comprare il libro, mentre vagavo nell’aeroporto di Manchester, aspettando il mio volo: la psichiatria, i primi passi della neurologia e tutto ciò che, in sintesi, riguarda lo studio della mente umana, sono argomenti di incredibile interesse per me.
Lo sono anche, evidentemente, per l’autore, che nel parlare dei passi avanti fatti da queste discipline inserisce alcuni dei passaggi più interessanti del libro; tuttavia, è proprio questo amore preponderante per la materia di studio che, in parte, ha affossato un poco il romanzo. Infatti, per quanto piuttosto ben delineati, i personaggi sembrano “succubi” della materia, e non in modo positivo: ovvero, questa “dipendenza” non porta ad un loro approfondimento, ma solo ad un approfondimento della materia stessa. Mi spiego meglio: per quanto uno sviluppo caratteriale dei personaggi ci sia, visto che il romanzo li segue dall’infanzia alla vecchiaia, è una crescita “bidimensionale”, che non porta ad affezionarsi in modo particolare a loro e che, in sintesi, serve all’autore più per dare sostegno alle teorie sulla psichiatria e sulla neurologia da lui narrate, piuttosto che fungere da “impalcatura” per l’imbastimento di personaggi a tutto tondo.

Thomas e Jacques, infatti, sono personaggi tratteggiati, ma che sembrano non riuscire a raggiungere totalmente il lettore; e tutti coloro che li circondano, di conseguenza, risultano anche più difficili da cogliere. Non che non ci siano le basi – come ho detto, non sono totalmente piatti – semplicemente, non fanno “il salto di qualità”. Un chiaro esempio di questo è Sonia, sorella di Thomas, che riesce a spiccare negli ultimi capitoli del romanzo ma, per il resto, sembra sempre un po’ troppo “scialba”; o l’Abbé Henri, che avrebbe potuto essere una grande figura di mentore.
Gli unici punti in cui ho trovato personaggi completi e tridimensionali sono nelle prime pagine dedicate a Thomas, legate alla sua infanzia, e nelle ultime, legate alla sua senilità (che mi hanno colpita molto, davvero); poi, alcune pagine riguardanti i primi passi nell’età adulta di Jacques (ad esempio, gli studi alla Salpêtrière – famoso ospedale di Parigi) e le ultime pagine del libro, legate a Sonia Midwinter. Non ho invece apprezzato lo sviluppo di Jacques da circa pagina 600 in poi – io l’ho interpretata come crisi di mezz’età più che come lotta contro il dolore, quindi forse è per questo che non ho apprezzato moltissimo la svolta. Anche l’entrata in scena di Kitty, paziente di Jacques, mi è sembrata parecchio forzata.
Inoltre, il rapporto tra Jacques e Thomas è sondato in maniera non del tutto soddisfacente – certo, non è sempre idilliaco, ha alti e bassi, cresce e si sviluppa seguendo il loro percorso psicologico e lavorativo, eppure… Vi dirò la verità, non so spiegare come mai la descrizione di questa amicizia mi abbia lasciata così poco convinta. Forse perché, in un punto particolare del libro (che non descriverò per non rovinare la lettura altrui) ho trovato un cambiamento repentino troppo poco credibile.

Altra cosa che non mi ha fatto impazzire sono i cambi di scenario. Come si evince dalla quarta di copertina, i nostri viaggeranno in diversi luoghi – tra cui l’Africa e la California. Ebbene, scenari così intriganti e perfetti per stuzzicare la curiosità del lettore sono trattati un po’ banalmente. Della traversata africana leggiamo molte cose, ma non “vediamo” nulla; almeno, io non sono riuscita a “vedere” la Rift Valley, né la savana. Stessa solfa per quella californiana. Invece, la descrizione della campagna inglese, della Parigi dei tempi (o meglio, dei sanatori della città) e dei monti tedesco-austriaci mi è piaciuta – mi è parsa più sentita e sono riuscita, appunto, a “vedere” ciò che veniva descritto.

Tuttavia, c’è da dire che queste mancanze si notano solo quando si pensa al libro a posteriori: durante la lettura, infatti, lo stile di Faulks assorbe quasi totalmente l’attenzione e porta chi legge, con grande pacatezza, nei meandri degli studi psichiatrici – argomento non facile, come si può immaginare. In questo va il mio plauso, quindi, all’autore, che in questo senso (contrariamente a quanto ho scritto prima, riguardo ai paesaggi) mostra grandi capacità descrittive, bilanciando informazioni più storico-tecniche e considerazioni più attinenti allo svolgersi della trama; eppure, non basta per risollevare del tutto il romanzo, anche perché in due occasioni viene lasciato troppo spazio al discorso scientifico-tecnico che, per quanto interessante, risulta alla lunga pesantuccio (soprattutto quando viene posto sotto forma di discorso diretto, anzi, di vero e proprio monologo).
Ma tornando alle cose che mi sono piaciute, devo dire che ho adorato il capitolo scritto secondo il punto di vista di Olivier (il fratello di Jacques), anche se all’inizio mi ha mandato davvero in confusione, e ho apprezzato anche la capacità dell’autore di descrivere il dolore, la sofferenza dovuta alla perdita, sia di persone care, sia della fiducia in quello che ci attende. Sono parti toccanti che, come ho già detto, testimoniano la bravura stilistica di Faulks, che si destreggia tra periodo piuttosto lunghi (come potrete notare dalle citazioni in fondo) con una grazia ammirevole.

Ciò che questo libro lascia, sostanzialmente, è un interessantissimo approfondimento sulla psichiatria e sulla neurologia, una montagna di concetti su cui riflettere molto a lungo perché legati a dubbi che, sul finire, legano lettore e protagonisti e appartengono all’umanità intera; ma il tutto si protrae troppo, tra l’altro portando in scena troppi personaggi (qui si che sarebbe valso il detto “meglio pochi ma buoni”).

Se questa recensione vi è sembrata confusa è perché, mannaggia, lo sono anche io; avevo molte aspettative, lo ammetto, e ora non so bene cosa mi rimane, dentro, di questo libro. Ho riflettuto davvero a lungo sul voto da assegnargli, perché oscillo continuamente tra le due e le tre stelline, con un voto che in decimali cambia solo di mezzo punto. Alla fine, con la promessa di leggere altro di Faulks – per gustare ancora il suo stile, per vedere se i difetti qui notati sono un’eccezione o la regola – mi ritrovo ad assegnare solo due stelline, nella speranza che l’autore sappia stupirmi piacevolmente in futuro!


Voto:
stellinestelline
           7

 

Frasi e citazioni che mi hanno colpita…

  • An “impression”, on wax or metal, was a draughtsmanship from which accurate images, unlimited in number, could be taken. His mother was something much vaguer, beyond even the abstract grasp of his memory, yet still present, still an entity in his mind, a glimpse of a life withheld.
  • “I’ve always enjoyed stories,” said Jacques.
    “And I have always enjoyed telling them,” said Sonia, “Though only to children.”
    ”Do you mean that when children grow older they no longer believe in such things’” said Jacques.
    ”No, that’s not what I meant. But I think it becomes harder for the person who is telling the story to have faith in it herself.”
    ”But we must continue to believe,” said Jacques. “Even in the most unlikely of stories. Without that hope, without te willingness to hope, then what are we?  […] “What I mean,” said Jacques, “is that when you’re young you may have a great dream or ambition, which appears to you like a story – the story of your own future. When you grow older you understand that it is not just difficult to achieve, but that it is full of risks and pain that you knew nothing of when you were a child.”
    ”But you must still believe in it?”
    ”I know that I do. I always shall. […]”
  • “My God, they suffer. I think they suffer for all of us. It is almost as though they bear the burden of our sins. It is scarcely too much to say that they pay the price for the rest of us to be human.”
  • Franz smiled. “It is an adventure.”
    ”Yes,” said Thomas. “One must always see it in that way. Sometimes I feel such a fool. How can I possibly know these things which are of their natur unknowable? What mad arrogance keeps me hitting my skull against the wall? These are misteries which no man can know. But there is something of Don Quixote in me, I suppose. Where I see a windmill, I will take my lance and saffle up. I dread growing older because one day I will think that I can no longer be bothered.”
  • “I am suffering from the limits of my mind,” he said. “There is a simple enough problem that I have set out to solve. How our minds work. How sickness enters in. Why the limits of what we can understand seem so narrow. As humans, we have gift of self-awareness, but it seems to lead us to no explanation. Of what use is consciousness if all that one is conscious of is ignorance?”
  • “So the Bible is not so sad in the end?”
    ”Yes, it is the saddest book in the world. We are asked to believe that God has played an infantile trick on us: he has made himself unobservable, as an eternal test of ‘faith’. What I read, though, is the story of a species cursed by gifts and delusions that it cannot understand. I read of exile, abandonment and the terrible grief of beings who have lost something real – not of people being put to a childish test, but of those who have lost their guide and parent, friend and only governing instructor and are left to wander in the silent darkness for all eternity. Imagine. And that is why all religion is about absence. Because once, the gods were there. And that is why all poetru and music strike us with this awful longing for what once was ours – because it begins in regions of the brain where once the gods made themselves heard.”

Buone letture a tutti!
Cami

P.S. domani è il compleanno del blog (compie già due anni, non riesco a crederci) e sono in serbo un paio di sorprese che spero vi piaceranno!

venerdì 2 settembre 2011

Vite e Morti d’Autore (#3)

Buondì a tutti!

Oggi riprendo questa rubrica per parlarvi di due autori che, in modi diversi, mi hanno toccata profondamente. Entrambi grandi a modo loro, entrambi cantori di una storia: Joseph Roth e John Ronald Reuel Tolkien.

bulletred Nacque oggi… Joseph Roth (2 Settembre 1894 – 27 Maggio 1939)

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Joseph Roth è uno scrittore austrico che, con il suo lavoro giornalistico e i suoi romanzi, ha narrato la storia della caduta dell’Impero Austro-Ungarico; egli stesso era nato in quella che oggi è la Polonia. L’autore stesso tentò svariate volte di “elaborare” questa informazione, falsificando la storia delle sue origini.
La cittadina dove nacque e dove si svolse la sua infanzia si chiamava Schwabendorf, nei pressi di Brody, un piccolo centro della Galizia, zona dalla forte presenza ebraica: Roth stesso era figlio di genitori ebrei, anche se non particolarmente ortodossi, tanto che il giovane Joseph fu mandato a frequentare una scuola dove non si insegnava solo la Torah e l’ebraico, ma anche il tedesco, il polacco e altre materie pratiche. Sebbene l’autore abbia parlato spesso di un’infanzia povera, in realtà fu piuttosto di tipo basso-borghese: Roth, infatti, seguì lezioni di violino e andò al ginnasio. Tuttavia, la situazione sicuramente peggiorò quando il padre, di ritorno da un viaggio di lavoro, venne ricoverato in una casa di ricovero per malati mentali; dato che, nell’ambiente ortodosso della Galizia, la pazzia era considerato un peccato, la famiglia nascose questo fatto e si preferì spargere la voce che Nachum, il padre, si fosse impiccato.

Al ginnasio fu l’unico ebrei a diplomarsi, con ottimi voti, ottenendo la dicitura sub auspiciis imperatoris. In questo periodo scrisse anche i suoi primi lavori, di ispirazione poetica. In seguito si trasferì prima a Leopoli, dove si iscrisse all’Università (anche se non è chiaro a quale facoltà), per poi trasferirsi a Vienna e studiare letteratura; tuttavia, la situazione finanziare era critica. Il giovane autore viveva con la madre e la zia Rebekka, ma a sostenere tutte e tre c’era solo una pensione che riceveva la madre e i soldi che ogni tanto mandava suo zio Siegmund. Col passare del tempo, però, Roth si fece notare nell’ambiente universitario e grazie a qualche incarico da maestro privato e qualche borsa di studio riuscì a migliorare la sua situazione.

Un’esperienza determinante per l’autore fu lo scoppio della Prima Guerra Mondiale e lo smembramento dell’impero, che lo colpirono profondamente e condizionarono il suo futuro anche come scrittore. Inizialmente rimase fermo sulla sua posizione pacifista; ma, col tempo, la posizione gli parve “vergognosa” e si offrì come volontario. Durante l’anno di addestramento, accadde un altro evento fondamentale per la Storia e per Roth: la morte dell’imperatore Francesco Giuseppe. L’autore faceva parte del cordone di soldati lungo il percorso del corteo funebre, e questo lo portò a identificare quel momento come la definitiva caduta del potere imperiale e della personale “perdita della patria”.

Finita la guerra, Roth si trasferì a Berlino, dove cominciò a diventare noto come giornalista; lavorò per importanti testate, occupandosi soprattutto di reportage dall’estero, tanto che visitò gran parte dell’Europa durante i suoi viaggi di lavoro.
Nel 1922, inoltre, Roth si sposò con Friedl Reichler, donna intelligente ma non adatta alla vita girovaga e intellettuale del marito; per di più, nel 1930 circa, mostro chiari segni di malattia mentale. Venne ricoverata in una struttura apposita e l’autore si incolpò sempre, in qualche modo, di questa sua degenerazione; dopo cinque anni chiese il divorzio. In seguito ebbe diverse relazioni, tutte conflittuali e di breve durata, anche per la gelosia quasi patologica di Roth.

Intanto, il nazismo avanzava. Quando Hitler divenne Cancelliere, nel 1933, Roth decise di abbandonare la Germania – e a ragion veduta: presto anche i suoi libri furono dati alle fiamme. L’autore scelse come luogo del proprio esilio Parigi.
Riuscì a rimanere attivo, diversamente da altri, anche durante la guerra; tuttavia, purtroppo, i suoi ultimi anni furono segnati dall’indigenza. Morto per una complicazione della polmonite che lo affliggeva, fu seppellito con rito cattolico “annacquato”, perché non si riuscì a trovare nessuna testimonianza di un’effettiva conversione al cristianesimo.

pointr Il libro consigliato… La Cripta dei Cappuccini (Die Kapuzinergruft)

Ho amato profondamente questo libro (e chi segue il blog da un po’ forse se lo ricorda). La caduta non solo dell’impero come istituzione politica, ma anche come patria di milioni di persone, è veramente incredibile: i pensieri di Francesco Ferdinando Trotta, non a caso chiamato come l’allora erede al trono, sono incredibilmente toccanti, e proposti con una scrittura incredibile. Consigliatissimo.

bulletred Morì oggi… John Ronald Reuel Tolkien (3 Gennaio 1892 – 2 Settembre 1973)

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J. R. R. Tolkien non ha bisogno di grandi presentazioni: considerato tra i maggiori autori fantasy, è noto pressoché in tutto il mondo per i suoi libri legati alla Terra di Mezzo e in generale ad Arda, “continente” di sua invenzione, caratterizzato da una complessità e da una profondità incredibile.

Nato in Sudafrica, a tre anni si trasferì per motivi di salute in Inghilterra, la patria natale dei genitori; il padre rimase in Africa a causa di una febbre reumatica e, purtroppo, morì prima di potersi ricongiungere alla famiglia. In seguito, la famiglia si trasferì diverse volte ed ebbe anche problemi economici, per cui il giovane JRR dovette smettere di frequentare la King Edward’s school, rinomatissima scuola privata di Birmingham, anche se tornò lì poco dopo grazie ad una borsa di studio.

Sin dalla tenera età la madre gli aveva passato l’amore per le fiabe e le antiche leggende, così come quello per le lingue, materia in cui Tolkien mostrò subito grande attitudine; purtroppo, anche lei morì quando lo scrittore era piccolo, così lo scrittore e suo fratello furono affidati ad un sacerdote cattolico (che aveva seguito la conversione della famiglia), padre Morgan. Proprio lui gli impedì di avere contatti con la ragazza di cui era innamorato dai 18 anni, Edith Bratt, sino a quando non ebbe 21 anni. La sposò nel 1916, prima di partire come volontario e raggiungere la trincea del fronte occidentale; perse dei cari amici e, dopo che si ammalò, gli fu concesso il ritorno in patria.
Nel 1917 nacque il suo primogenito, John, e l’anno seguente il secondo figlio, Michael; col finire della guerra, poté finire i suoi studi e ottenne il titolo di Master of Arts.

Nel 1921 divenne docente di lettere all’università di Leeds; è in questo periodo che comincia a creare i propri linguaggi fittizi e a porre le basi della Terra di Mezzo. Nel 1924 nasce il figlio Christopher (il maggior curatore delle opere tolkeniane, ai giorni nostri), seguito da Priscilla, unica figlia femmina. Nel 1925 viene nominato professore di filologia anglosassone al Pembrooke College di Oxford, e a questo periodo risale la grandissima amicizia con C. S. Lewis (altro grande scrittore fantastico) e la creazione del circolo degli Inklings, un ritrovo di intellettuali stanziati all’università. Tolkien si trasferì poi al Merton college, come insegnante di lingua inglese e letteratura medievale, dove rimase sino al suo ritiro dall’insegnamento, nel 1959. Studiò e tradusse molte opere (soprattutto dal dialetto inglese centro-occidentale), e i suoi testi vengono studiati ancora oggi.

Tra il 1930 e il 1940 tutti i fili dell’immaginazione, che aveva cominciato a tessere sin dal 1917, cominciarono a intrecciarsi e, unendo la propria “mitologia” personale ai racconti che era solito raccontare ai propri figli, nacque la prima storia completa del suo mondo: “Lo Hobbit”.  Il resto è storia: il libro ebbe molto successo, l’editore propose a Tolkien di pubblicare altro, “Il Signore degli Anelli” vide la luce. L’autore aveva moltissimo materiale (tanto che il figlio Christopher lo sta ancora studiando e ordinando) e alcune opere purtroppo, come “Il Silmarillion”, non furono mai del tutto completate.

Trascorse gli ultimi anni della sua vita sulla costa, dove morì, ad 81 anni, due anni dopo la sua amata moglie; tanto era l’amore che legava i due coniugi, e tanta la passione che Tolkien provava per il mondo che aveva creato, che sulle tombe fece incidere i nomi di Beren e Luthien, l’umano e l’elfa protagonisti della toccante storia d’amore narrata ne “Il Silmarillion”.

pointr Il libro consigliato… Lo Hobbit (The Hobbit)

Probabilmente chi conosce Tolkien si sarebbe aspettato di trovare qui la sua opera principale. Tuttavia, in questo caso il libro consigliato è specificatamente per chi non conosce ancora Tolkien: per immergersi nel suo fantastico, intricato, meraviglioso mondo a piccoli passi. Fidatevi – forse all’inizio la lingua vi sembrerà “antica”, ma è proprio l’impressione di seguire un poema epico che dà un sapore diverso al tutto. E poi, come non affezionarsi a Bilbo, Gandalf e a tutti gli altri personaggi?

 

Per oggi è tutto (che grandi autori che ci sono capitati!); voi avete letto qualcosa di questi scrittori? O vorreste leggere qualche loro libro?

Cami